Accade spesso che l'interiorità non sia
compresa in ciò che vuole dire e proporre. L'errore nasce prima di tutto dal
rimanere prigionieri della visione comune e prevalente, che afferma che tutto
interiormente dovrebbe svolgersi secondo una presunta normalità, il che
predispone a trattare come sospette anomalie le esperienze interiori complesse
e difficoltate di disagio. Non solo, ma in presenza di una condizione di
malessere interiore, succede spessissimo che il malessere sia riferito e
principalmente letto come un problema di rapporto con l'esterno, che la ricerca
si indirizzi subito in questa direzione. Il malessere interiore in realtà, per
quanto metta nella condizione di sentire un legame stentato e critico con
l'esterno, con gli altri, forza il coinvolgimento e spinge l'attenzione
dell'individuo verso l'interno, verso l'intimo di se stesso, produce una sorta
di ripiegamento, di introversione forzata, di caricamento e di polarizzazione
di sensazioni e di stati d'animo (ad esempio di paura, smarrimento, apprensione,
di scoramento e sfiducia), che collocano comunque dentro se stesso il cuore
pulsante della sua esperienza. Cosa vuole questo malessere, cosa dice, cosa
intende proporre? Questo è il punto. Lasciare dire alla parte profonda cosa
dentro e attraverso il malessere sta sollevando e proponendo, imparare ad
ascoltarla e a comprenderla nel sentire che anima e nei sogni, è la scelta da
fare, ma già riconoscere che c'è nel proprio intimo una parte profonda capace
di dire, di proporre è una novità senza precedenti. Solitamente infatti si
tende a circoscriversi nella percezione e nel riconoscimento del proprio
essere nella parte conscia, abituata a tenere in pugno tutto, parte che ragiona
e che decide, il resto, l'intimo, il sentire, gli svolgimenti interiori, i
sogni, sono intesi e trattati come appendice più o meno trascurabile, da cui
non ci si aspetta di poter ricevere granché di utile e di sostanziale per
capirsi, per orientarsi. Si pretenderebbe viceversa che la componente interiore
si accodi e si accordi, giudicando che, dove non si accordi con gli
orientamenti e con i propositi razionali, ciò accada per qualche sua bizzarria
o, dove acuisca i toni, per un suo anomalo stato. Gli stessi terapeuti in non
pochi casi hanno un'idea dell'essere umano che poco si discosta da questa
visione comune, al più pensano che l'inconscio, ammesso che ne tengano conto,
sia (oltre che origine di pulsioni e di risposte immediate, emotive, che se a
volte paiono rivelatrici, spesso invece sono considerate inaffidabili perché
"irrazionali") un ricettacolo o serbatoio di ricordi, di esperienze
più o meno spiacevoli. C'è un'idea ricorrente per spiegare le origini e le
ragioni del malessere attuale, che piace sia a chi vive malessere interiore che
a non pochi curanti, che ritiene che la vita interiore possa essere stata
turbata e segnata da episodi traumatici del passato, da esperienze e da
condizionamenti subiti, sfavorevoli e con effetti distorcenti il normale
sviluppo atteso, che di conseguenza l'esperienza interiore attuale ancora ne
risenta, ripetendo anche nel presente, come un disco rotto, errori e segni di
alterato funzionamento. L'inconscio riproporrebbe come un automa simili
distorsioni e resterebbe ancorato a quei precedenti storici. Si ritiene insomma
che la vita interiore sia rimasta nel tempo, fino al presente, come congelata,
inchiodata a quei passati episodi traumatici e condizionamenti sfavorevoli. E'
un teorema, che non appartiene solo a chi soffre interiormente, che gli vale
una spiegazione vittimistica del proprio disagio e malessere interiori (la
sofferenza attuale come conseguenza di remoti accidenti sfavorevoli subiti
e di colpe altrui), ma spesso anche a chi gli si mette a fianco per aiutarlo.
Il malessere, considerato senza esitazioni un'espressione di malfunzionamento,
di alterazione della normalità, è consegnato subito a cause e a ipotetici condizionamenti
esterni, così come a possibili soluzioni esterne, senza intendere che sia
espressione di intervento e di presa di posizione, di richiamo e di iniziativa
del profondo e che dunque col proprio profondo sia da cercare finalmente un
incontro e da coltivare un dialogo. E' così abituale pensarsi solo e unicamente
in relazione ad altro e ad altri, che tutta l'attenzione e la ricerca si
concentrano in questa direzione, saltando a pie pari, ignorando l'esigenza di
un rapporto con se stessi, come necessità prioritaria, come punto saldo,
decisivo per cominciare a ritrovarsi. Per comprendere la voce del malessere
interiore, il suo richiamo, è necessario non sovrapporgli congetture e
spiegazioni circa la sua causa cercandole a destra e a sinistra, in questo o in
quello esterni a sé, ma è necessario sintonizzarsi con l'intimo, imparare ad
ascoltarlo, scoprirne la voce nel sentire e nei sogni, che tanto sanno dire e
far comprendere, che tanto sanno avvicinare a se stessi. Non si è certo dotati
di capacità di ascolto e di dialogo col proprio intimo, non se ne conoscono il
linguaggio, il modo di comunicare, l'intenzione e la capacità di pensiero che
sa animare, la tensione a vedere, a entrare, al di là delle apparenze, nel
profondo, a cercare il senso vero, essenziale da far propria, per non
continuare a dire senza intendere, a pensare senza comprendere. Prezioso e
necessario si renderebbe un aiuto per imparare a trovare rapporto e intesa col
proprio intimo. Accade però che oltre all'individuo, abituato a assorbire e a
chiudersi nella concezione comune e prevalente dell'esistenza, intesa prima di
tutto come legame con altro e con altri e come ricerca rivolta al fuori, gli
stessi terapeuti, in non pochi casi, pensino che il centro dell'esistenza
dell'individuo sia il rapporto con l'esterno, con gli altri, con quella che
volentieri chiamano, come fosse un'entità univoca e assoluta, la
"realtà". Puntano subito l'attenzione in quella direzione, per
indagare la presenza nell'individuo, portatore di malessere interiore, di
insufficienti o errati ( li chiamano disfunzionali) modi di intendere e di
affrontare il rapporto con gli altri e con l'esterno, cercano di stimolare,
incoraggiare e portare a nuove, ritenute più normali e felici, soluzioni per
interpretare e gestire il rapporto con l'esterno, come fosse lì l'essenza
dell'individuo e il punto d'origine e il fulcro del suo conoscersi e
realizzarsi. Spesso manca completamente, non è acquisizione presente nel
pensiero non solo di chi soffre disagio, ma sovente anche di chi se ne prende
cura, che esista una parte del proprio essere, quella profonda, non solo
influente e decisiva nel muovere e nel plasmare l'esperienza interiore (non
sono fattori esterni ma è il profondo a plasmare e a "qualificare" la
risposta, anzi la proposta del sentire), ma anche fortemente propositiva e
creativa, capace già nelle espressioni della sofferenza interiore, tutt'altro
che casuali e disordinate, di sollevare in modo acuto e puntuale questioni
decisive e fondamentali riguardanti il proprio modo di procedere, di stare in
rapporto (spesso in non rapporto) con se stessi, col proprio intimo. Non si
comprende che il malessere interiore, che la crisi è espressione di un
intervento del profondo, che vuole risvegliare la presa di coscienza, che vuole
interrompere il procedere cieco, un modo di pensarsi e di vedere la propria
esperienza, che non vede su quali basi e in che modo si sta impegnando se
stessi, la propria vita. Non si comprende che è con se stessi, con la propria
interiorità che è in atto un confronto, che è con la propria interiorità, che
muove il malessere e gli dà forza e ne dirige i modi e l’andamento, che va
trovato un rapporto e va aperto un dialogo, cercato un approfondito chiarimento,
una nuova intesa. Tutto il malessere interiore infatti, visto abitualmente
come guasto, vuoi provocato da cattive interferenze e condizionamenti esterni,
vuoi legato a un modo scorretto o inadeguato di procedere, non regolare, non
secondo normalità, che come tale non procurerebbe benefici e benessere, un
procedere che nella sostanza e nei suoi fondamenti e presupposti non è in
discussione, è in realtà segno e espressione della presa di posizione della
parte profonda dell’essere, che non può e non vuole tacere la propria visione dello
stato delle cose, la propria consapevolezza, che vuole “contagiare“ di questa
l‘individuo nel suo insieme, nei suoi pensieri, nei suoi umori, nei suoi
propositi. Non è una presenza dentro di noi estranea e aliena quella del
profondo, l’inconscio siamo noi nel nostro tenere lo sguardo, al di là delle
apparenze e senza sviste, su di noi, nel riconoscere il vero della nostra
condizione e del nostro modo di procedere, che vede spesso il disaccordo e il
mancato incontro tra sentire e pensare, tra esperienza intima e coscienza di
noi stessi. L'inconscio siamo noi nel nostro non rinunciare a noi stessi, nel
nostro voler essere non copia d’altro, passivi (per inerzia e per comodo, per
adesione e soggezione al modo appreso e dominante) nel consumare ciò che c'è, ipotesi,
soluzioni e scelte che la cosiddetta realtà offre confezionate e pronte,
passivi nel pensare secondo idee e parametri comuni, guidati e regolati più di
quanto non si voglia ammettere dall'esterno, dalla conferma esterna dipendenti,
ma soggetti, portatori e artefici di un originale pensiero e progetto,
certamente non già fruibili e pronti, ma da generare e scoprire, come possibile
con la guida del profondo. L'inconscio siamo noi nella volontà di non procedere
incuranti di capire, di sapere, di affrontare il vero, pur difficile o
doloroso, senza omissioni, equivoci e contraffazioni, concentrandoci sulla
nostra esperienza, affidandoci non alle spiegazioni solite e comuni, ma al
nostro sguardo, cercando risposte non costruite col ragionamento, ma fondate
sul vissuto, sul confronto aperto e sull'ascolto fedele del nostro sentire
senza tagli, senza fughe. L'inconscio è la parte di noi che vuole questo
impegno e sforzo di ricerca e di costruzione, che non asseconda le illusioni di
avere già autonomia e originalità di pensiero, se formati su basi inconsistenti
o facendo il verso ad altro da noi stessi che lo ispira e lo sostiene.
L’inconscio è la parte di noi stessi che ci vuole instradare e sostenere nella
nostra ricerca di consapevolezza vera, senza veli, senza semplificazioni,
salda, affidabile e capace. L’inconscio non cerca la normalizzazione, ma la
verità e la realizzazione autentica, perché diversamente non c’è vita.
L’inconscio è vita. Tutto lo sforzo per cercare di stare nelle guide di un modo
di vivere e di intendere la vita dato per scontato, conforme al già concepito e
comunemente inteso, modellandosi nella cosiddetta normalità, facendosi bastare
e dando credito a soluzioni fragili, a illusorie rappresentazioni di se stessi,
tutta la strategia curativa che vuole ricondurre il malessere se non a semplice
patologia, a insufficiente o infelice adattamento, che vuole ricucire e che di
fatto incoraggia e forza a stare dentro il già dato e conosciuto, urta contro
la scelta del profondo, non la considera e non la comprende. Anzi, l’idea che
il malessere sia un disturbo, un ostacolo da superare, al più da spiegare come
conseguenza di qualche infelice precedente e influenza negativa di un genitore
piuttosto che di qualcun altro o di qualcos’altro, è un enorme travisamento e
incomprensione delle espressioni della vita interiore, del profondo, delle sue
intenzioni. Per il profondo vivere è far vivere se stessi, è formare visione,
pensiero propri, base e leva della libertà e della capacità di mettere al mondo
la propria idea e realizzazione, di compiere il proprio originale cammino. La
posta in gioco è essere adattati, passivi e silenti (non importa se,
illusoriamente, convinti di avere personalità spiccata e cose da dire, però
senza radice, fondamento e sostegno in se stessi) oppure presenza consapevole e
feconda, capace davvero di autonoma visione e di autonomo progetto, questo
l’inconscio vuole porre e tenere viva come questione, purtroppo non compresa,
spesso misconosciuta, oltre i confini della testa ragionante, del modo di
pensare consueto e prevalente. Quando l’inconscio ha occasione di essere
ascoltato e rispettato, seriamente valorizzato, fedelmente compreso (sia nel
sentire, che anima e che plasma, che nei sogni, dove dà il meglio di sé), come
accade in una valida esperienza analitica, il contributo che sa dare di
pensiero, di risveglio di umanità, di gioia e di passione di conoscere e di far
vivere se stessi, è enorme.
giovedì 18 aprile 2024
Cos'è l'inconscio? Entità impalpabile e misteriosa o presenza viva e vicina?
mercoledì 17 aprile 2024
I sogni formano il pensiero autonomo
I sogni hanno un ruolo fondamentale nella
conoscenza di se stessi, sono decisivi nel rovesciare la tendenza a rimanere
sulle tracce e sui binari del pensare abituale, dentro una modalità di pensiero
che non permette di vedere, che, pur argomentando e ragionando, non consente di
capire. E' una forma di pensiero, quella solita affidata all'uso dello
strumento razionale, che fa rimanere adesi a modalità e a schemi soliti, senza
stacco riflessivo che permetta di capire il senso di ciò che si sta dicendo, di
interrogare quale sia il suo scopo vero, di verificare su cosa poggino le
proprie affermazioni, se ci sia fondamento valido e compreso ai propri
pensieri. I sogni, creature di intelligenza rara e sublime, sanno educare al
pensiero riflessivo. Non è affatto immediato entrare in sintonia e in accordo
di sguardo e di visione con l'inconscio, con ciò che propone dentro e
attraverso i sogni. La tendenza più comune è di leggere il sogno come se fosse
uno sguardo sul fuori, su ciò che accade nella relazione con situazioni e
soggetti esterni. Se nel sogno compaiono una o più persone si pensa che il
sogno parli di loro e di quanto c'è in atto o potrebbe esserci nel rapporto con
loro, nei loro confronti e viceversa. In realtà questi altri danno volto e
espressione a propri modi di essere e di procedere. L'inconscio vuole aprire
proprio lo scenario interno, stimolare e favorire la scoperta e conoscenza di
se stessi, di tutto ciò che risalente a sè è stato sinora ignorato, omesso,
vista la tendenza a aver cura e attenzione tutte rivolte agli svolgimenti
esterni, al rapporto con gli altri e con tutto ciò che sta fuori. Se nel sogno
ci sono svolgimenti difficili, inquietanti la prima idea è che l'inconscio
voglia mettere l'accento o segnalare l'imminenza o la presenza di condizioni
difficili legate a pressioni, a minacce esterne, questo perchè l'atteggiamento
di fondo è spesso quello vittimistico e deresponsabilizzante, di ricondurre ad
altro e a altri la responsabilità del proprio disagio, delle difficoltà, delle
insoddisfazioni, di quanto è vissuto come irrisolto o negativo. L'inconscio fa
recuperare tutto ciò che risale a se stessi, indirizza lo sguardo su di sè,
rende visibile lo scenario interiore e lì dentro cosa accade nel rapporto con
se stessi, nel modo di trattare ciò che vive e che si propone nel proprio
intimo, nei propri stati d'animo e vissuti. Nella vita interiore, resa spesso
marginale e ampiamente trascurata, quindi ignorata e misconosciuta, resa
subalterna a altro, vista la centralità riconosciuta al legame e a quanto agito
nel rapporto con l'esterno, trovano riconoscimento vivo i punti focali
dell’esperienza, è questo che i sogni vogliono rendere visibile. Lì dentro c'è
lo specchio per vedere di se stessi cosa realmente dentro l’esperienza e il
proprio procedere si cerca, in che modo, condizionati da quali pretese,
indirizzati da quali aspettative, in quale tipo di vincoli. E' abituale ad
esempio non vedere quanto nel proprio agire e spendersi risale a esigenze di
ben figurare, di dare allo sguardo comune prove di adeguatezza e di capacità,
come è abituale non riconoscere il ricorso a quanto già formato e concepito e
che finisce per fare da base e da confine a un pensiero che si illude di essere
di costruzione propria e capace di portare a nuovi sviluppi di conoscenza. La
dipendenza, la mancanza di guida e di elaborazione autonoma passa inosservata,
nemmeno è questione. Ciò che interiormente dà stimoli e basi vive per capire in
che modo ci si sta muovendo, si sta pensando e ci si sta dirigendo, ciò che nel
sentire offre proprio questi spunti e guide per soffermarsi a capire, a
capirsi, non è messo al centro del proprio sguardo, tutta la macchina razionale,
cui è affidata la propria attività di pensiero e la guida del proprio procedere, se la racconta senza stare al
vincolo stretto col sentire, senza farlo parlare, senza impegnarsi a
ascoltarlo, a intenderlo attentamente e fedelmente. I sogni recuperano tutto
questo lavorio inutilizzato o travisato dall'attività di pensiero consueta per
ridare le coordinate di un pensiero autenticamente riflessivo, che mette al
centro l'esigenza di capire i propri modi di essere e di procedere, senza appiattirsi
a dare invece contributo al pensato abituale, senza dare implicita conferma e sostegno
al tirare avanti dritto sulle solite basi e con la solita inconsapevolezza. Ciò
che si muove nell'intimo di emozioni, di stati d'animo, di sensazioni e di
spinte ha la stessa matrice dei sogni, non è un susseguirsi di risposte
meccaniche, di reazioni banalmente e automaticamente sollecitate e condizionate
da questo e da quello che accade fuori, è ben altro, è risposta e
iniziativa intelligente, è terreno vivo di presa di visione di se stessi e di
quanto ha capacità di condurre a conoscere se stessi. Nei sogni l'inconscio
perfeziona lo sguardo, crea le basi per prendere la migliore visione possibile
di se stessi e di quanto sta accadendo nel proprio modo di condursi, di
condurre la propria vita. La componente intima è resa finalmente riconoscibile,
ampliando la percezione dei confini del proprio essere, rompendo lo schema
abituale, che vede il proprio essere a una sola dimensione del pensare e
dell’agire razionale e volitivo. Se in un sogno si creano situazioni difficili
o inquietanti, se si viene alle prese con figure che appaiono minacciose, con
pericoli anche estremi, non è per ribadire o per segnalare che si è sotto
pressione di minacce esterne, casomai invece per rendere riconoscibile che è
dentro se stessi che si aprono tensioni, che è da dentro se stessi che si fanno
avanti pressioni e pretese diverse rispetto alla prassi abituale, che ignora
qualsiasi relazione con l'intimo e il profondo del proprio essere. La parte
profonda non sta ferma e zitta, si fa avanti e vuole introdurre qualcosa di
nuovo, di radicalmente diverso, non per fare danno o sconquassare malamente, ma
semmai per sollecitare mutamenti e trasformazioni, prima di tutto di sguardo e
di pensiero, valide e necessarie, per rompere tendenze che chiudono e
impediscono di aprire gli occhi, di conquistare nuova consapevolezza, che
liberi nuova vita, nuove e ben diverse prospettive. Se, per fare un esempio, in
un sogno compaiono ladri, che minacciano di derubare cose proprie o in casa propria
o che lo fanno, può questo dire delle iniziative di una parte intima e profonda
di se stessi, niente affatto altra da se stessi, che vuole togliere false
credenze e possesso di idee e convinzioni che non hanno attendibilità e che
chiudono piuttosto che garantire la propria crescita e realizzazione umana
personale. Ciò di cui parlano i sogni non è sulla lunghezza d'onda del
pensato abituale, ma è un pensiero, quello cui danno forma, che sa entrare nel
cuore della verità, che sa animare e rianimare un individuo troppo adagiato su
una visione di se stesso inautentica e niente affatto favorevole ai suoi
interessi di crescita vera. I sogni non sono di immediata comprensione, non
parlano il linguaggio abituale, non puntano lo sguardo e l'attenzione nella stessa
direzione dello sguardo convenzionale e consueto, i sogni parlano di se stessi
e aprono a una visione della vita centrata su di sé, non a rimorchio di altro
che fa da modello e guida, non confinata in abitudini e interessi soliti. I
sogni accendono una visione, guidano alla formazione di un pensiero autonomo
fondato su esperienza e ricerca proprie, che, se compreso e condiviso
dall'individuo, sa renderlo libero e capace di concepire a modo proprio il
senso e lo scopo della sua vita, di riconoscere, apprezzare e utilizzare le
sue autentiche e complete risorse umane.
domenica 14 aprile 2024
Il rapporto col sentire: luoghi comuni, manipolazioni e trucchi sottili
Per capire se stessi è decisivo il rapporto con le emozioni e con tutto ciò che si muove interiormente. Se si vuole prendere contatto col vero, se si vuole conoscere se stessi e ciò che, al di là delle apparenze, accade nella propria esperienza, è necessario rendersi capaci di rapporto aperto e dialogico col proprio sentire, imparando a ascoltarlo in ciò che dice. E' tendenza frequente porre in secondo piano e sotto tutela ciò che l'esperienza interiore propone, dando prevalenza e consegnando funzione guida al pensiero razionale, riconoscendogli il compito e il diritto di giudicare l'opportunità e di stabilire la congruità del sentire. In non poche circostanze, credendo nella superiorità e nella affidabilità dello sguardo razionale, si ritiene utile, anzi necessaria, come condizione per capire le cose al meglio, la messa in disparte delle emozioni, viste come fattore perturbante la visione lucida e obiettiva. Viceversa capita che in alcune circostanze si invochi la messa in pausa del ragionamento e dell'istanza di capire per liberare le emozioni, per quel "lasciarsi andare" liberatorio e libero da intralci, che colori e permei al meglio e piacevolmente la propria esperienza, convinti che ci sia solo da vivere le emozioni e non da capirle. Si conferma la tendenza a tenere separati il sentire e il pensare, come fossero antagonisti e inconciliabili, come dovessero operare in campi separati. Se da un lato la preoccupazione di salvaguardare il sentire dall'intervento del capire è comprensibile, considerato il carattere non dialogante, l'atteggiamento di fondo non rispettoso verso il sentire, l'attitudine a porre regole e condizioni e a stabilire dall'alto ragioni e spiegazioni, in sostanza la mancanza di capacità d'ascolto e riflessiva del modo usuale di esercitare il pensiero nella forma razionale, dall'altra, ritenere in assoluto inopportuno l'intervento del pensiero nel rapporto col sentire, significa fraintendere il potenziale e lo scopo del sentire. Il sentire evidenzia e detta i contenuti su cui portare l'attenzione, apre in modo sensibile la strada alla conoscenza, il sentire non disdegna affatto di essere compreso, di veder raccolto fedelmente e attentamente ciò che vuole dire, suggerire, evidenziare, anzi negargli ascolto e impegno di comprensione significa vanificarne la proposta e l'intenzione. La questione fondamentale è la forma di pensiero messa a disposizione e rivolta al proprio sentire. Al sentire, alle emozioni, agli stati d'animo, ai moti interiori, non va riservato un pensiero che si senta in diritto di commentarlo, di giudicarlo, in chiave negativa o positiva poco cambia, è sempre un pregiudizio, come abitualmente fa il pensiero razionale, con la sua pretesa di far valere la sua intelligenza sopra emozioni e vissuti, di fatto applicando loro le sue categorie e i suoi codici di significato già pronti, senza dare loro voce, senza raccoglierne il messaggio. Al proprio sentire va viceversa garantito un pensiero autenticamente riflessivo, capace di riconoscerne l'intimo volto, come quando, guardando la propria immagine riflessa dallo specchio, si può vedere nei propri occhi e nel proprio volto ciò che svelano, che comunicano. Le emozioni, i moti interiori, ciò che prende forma nel sentire va saputo cogliere e riconoscere nelle sue specificità e sfumature, perchè diversamente si spreca questa risorsa interiore, il suo potenziale propositivo. Facciamo un esempio per capire meglio. Un moto di invidia rivolto a qualcuno può essere facilmente trattato da chi lo vive o come un segno ovvio di desiderio di avere per sè ciò che l'altro possiede o manifesta come qualità, ovvio perchè pare possedere il meglio, o come espressione di sè disdicevole e sconveniente, perchè l'invidia ha caratteri in sè poco piacevoli, disagevoli, un pò amari, ma anche facilmente considerati da idea e etica comune indegni e riprovevoli. Ebbene quel moto si è pronunciato non per caso per dare l'occasione di prendere visione di qualcosa di importante, di cruciale di se stessi su cui portare l'attenzione. Ciò che mostra di sè, lo dicono proprio le particolarità e le sfumature del sentire, è un senso di insufficienza, di inadeguatezza, di mancanza di un proprio su cui contare e di cui sentirsi soddisfatti. A dirlo quella sottile pena disagio, imbarazzo riservato a sè che accompagna il moto di invidia. Dunque lo sguardo su se stessi comincia a rivelare che ci si sente carenti e che dalla propria non c'è qualcosa che si consideri davvero valido, qualcosa che si sia generato e che si senta e riconosca davvero caro a se stessi e valido ai propri occhi. Se scatta il paragone e se da altri ci si fa dire cosa vale e andrebbe perseguito ecco rendersi visibile attraverso quel sentire che si è al traino, che altro da sè ha già deciso cosa vale e cosa va perseguito per concedere stima a se stessi e per raggiungere un senso di capacità, di riuscita. Il proprio sentire disegna lo stato delle cose e crea il terreno di ricerca su cui riflettere, dove lo sguardo, l'attenzione sono portati e centrati su di sè, un terreno estremamente preciso, attendibile, capace di portare alla verità di se stessi, capace di permettere ricerca utile per non rimanere schiacciati nell'inconsapevolezza e costretti negli automatismi del pensiero e delle scelte. Il sentire è intelligente e intelligentemente delinea, evidenzia ciò che serve per entrare in rapporto più approfondito con se stessi, per lavorare su questioni vere e toccanti. Ma torniamo a riflettere su quanta corrispondenza e rispetto sono concessi al proprio sentire. Circa la libera espressione del sentire, va osservato che, a dispetto della loro presunta genuinità e spontaneità, sulle emozioni e sulle spinte interiori cala non di rado da parte di chi le vive una presa sottile, che le vuole comunque pilotare, in qualche modo selezionare e riplasmare. Sul conto delle emozioni, del sentire, si tende infatti non poche volte, anche se in modo non appariscente, a svolgere un controllo e una regia che vuole che si esprimano e si declinino accontentando canoni di normalità, di buona resa e di buon gradimento: commuoversi, stupirsi, piangere, gioire e entusiasmarsi, come fosse positiva o dovuta quella particolare espressione, "normale" in determinate circostanze e condizioni, come fosse sinonimo di sana sensibilità e vitalità, come se in caso contrario ci fosse sospetto di freddezza, di mancanza di sensibilità, di qualcosa che non va. Per alcuni può anche vigere regola diversa, ritenendo espressione di debolezza provare turbamento, paura, inquietudine, come se forza d'animo e maturità consistessero nel rimanere saldi e sicuri. Non è raro comunque che ci si ponga, in subalternità a regole condivise, il dubbio circa la propria idoneità, circa se stessi, quando non risulti a se stessi naturale e spontaneo provare ciò che culturalmente è ritenuto ovvio, valido e normale. Fare delle proprie emozioni, del proprio sentire il mezzo per risultare adeguati e ben accetti, per ben figurare e in modo più esplicito farne l'arma per sedurre, per stupire favorevolmente, non è cosa così rara. Il sentire autentico, che sinceramente, senza filtri, correzioni e manipolazioni, possiamo riconoscere dentro di noi, in realtà è autonomo rispetto a ogni pressione, non rispetta nessun convenevole, non si subordina a nessuna azione regolatrice, a nessuna disciplina e pretesa, è imprevedibile, mai scontato, mai docile alle attese. Il nostro sentire vero, non oscurato, non filtrato e non rifatto a nostro e altrui uso e piacimento, è la voce del nostro profondo, che, incurante delle convenienze, sfuggendo a qualsiasi tentativo di addomesticamento, con precisione e con intelligenza vuole a ogni passo guidarci a entrare nelle pieghe della verità che ci riguarda. Il sentire non è una bella decorazione, un fiore da portare all'occhiello e neppure è risposta automatica a questo stimolo o a quello. Il nostro sentire è funzione intelligente, è traccia e guida per entrare in rapporto con la verità di noi stessi, il sentire spontaneo e naturale è ogni volta spunto intelligente, spunto, evidenziatore, scintilla di conoscenza. C'è chi, più spiccata questa convinzione nel sesso femminile, ritiene di avere apertura naturale e più spiccata confidenza con le emozioni, col sentire, coi sentimenti e con tutto ciò che non è nel governo di volontà e ragione. Se è vero che l'uomo è spesso più lontano della donna dalla vita intima e più avvezzo all'azione e al pensare razionale che viaggia disinvolto in alta quota ben staccato dal suolo degli svolgimenti interiori, non è detto che quest'ultima abbia davvero capacità di rispettosa apertura e rapporto con la vita interiore, col sentire. La presunta e apparente apertura e vicinanza al sentire, se esposta a uno sguardo più attento può infatti lasciar vedere che su emozioni e sentimenti può esercitarsi, come dicevo, niente affatto raramente, una sottile manipolazione. Senza che si renda visibile smaccatamente l'artefatto, pur senza teatralità o più scoperta ambiguità o ipocrisia dei sentimenti, si può in una forma più lieve e sottile caricare, enfatizzare, si può fare selezione, filtro sul sentire, dando riconoscimento all'interno delle proprie sensazioni e stati d'animo, a ciò che più è gradito e piace, rendendo così l'accesso e il rapporto col proprio sentire più controllato e conveniente, assai meno aperto, fedele e spontaneo di quanto non appaia e non si voglia credere e far credere. C'è poi l'istanza, di cui già dicevo, che vuole, per il proprio sentire o presunto tale, per ciò che muove le proprie scelte e espressioni, libertà da interrogativi stringenti, da necessità di verifica attenta, che chiede di non insistere con le domande di chiarimento, invocando quella leggerezza, che oggi nel pensato e nel linguaggio comune gode di buon credito. In questi casi il significato dichiarato, che spesso si rifà al più in uso e condiviso, è considerato sufficiente per la conoscenza di sé e della propria esperienza, anzi esaustivo. Succede allora che espressioni esaltanti come innamoramento, passione, attrazione o altre, meno esaltanti, come avversione, disagio, dolore, siano trattate come affermazioni che non necessitano di chiarimento ulteriore e di approfondimento rispetto a ciò che pare già implicito e scontato, perché considerate in sé sufficienti per dire il bello e il brutto, per colorire e qualificare il significato e il valore, la bontà o il negativo di un'esperienza. Quante volte, per fare un esempio, per chi vive il cosiddetto innamoramento, questo è, senza dubbi e esitazioni, sinonimo di un trasporto e di un forte sentimento amoroso verso l'altro, non curandosi di mettere in luce che quel cosiddetto innamoramento può essere espressione e collante di un legame dipendente (con reciprocità interdipendente), dove l'altro è mezzo e occasione per portare a sé, prontamente, qualcosa, il sostituto di qualcosa di essenziale e necessario non ancora cercato dentro se stessi, non ancora coltivato, generato e fatto vivere da sé, quante volte pare via di completamento (trovare la propria cosiddetta metà) e di realizzazione, quando invece è rinuncia a cercare vera completezza di individuo e vera auto realizzazione, quante volte è illusoria rinascita e risalita di autostima, perché l'altro o l'altra riempie di attenzioni e sembra porre se stessi al centro del suo interesse! Vedere chiaro cosa ci si spinge a cercare e a fare proprio, riconoscere dentro le proprie spinte i significati veri, aprendo confronto attento e trasparente con se stessi, è scelta frequentemente omessa e evitata, perché, assumendo per vero il significato apparente, perché affidandosi alla retorica dei sentimenti, tutto sembra girare al meglio e favorevolmente, salvo nel tempo, come nell'esempio di prima, patire, non di rado, la stretta del legame dipendente e ritrovarsi a corto di autonomia e di crescita personale vera, salvo giungere, in non pochi casi, a disillusioni cocenti. La retorica, rivestire di qualità e di significati che piacciono e che fanno comodo, ricorrendo e andando dietro a modi di intendere di largo uso e ben considerati, è nel rapporto col proprio sentire un espediente che torna assai gradito, in apparenza vantaggioso. La manipolazione del sentire e l'utilizzo sul suo conto di attribuzioni di significato e di valore più comuni e imperanti, offre vantaggi di immagine, copre responsabilità, aiuta a trovare scorciatoie, a darsi un'identità che piace, persuade e trova facile consenso negli altri, appoggio, complicità. Se trucca le carte, lo fa in modo così sottile da passare inosservato. Non del tutto però, perché la parte profonda di se stessi non si fa né incantare, né persuadere dalle apparenze, perché di tutto ciò che si muove sullo scenario dell'esperienza sa riconoscere e vuole far risaltare il senso vero. E' tutt'altro che infrequente cadere nella trappola del sentire che si pretende genuino, delle spiegazioni e delle rappresentazioni sul suo conto che vorrebbero essere appropriate e consone, in realtà sovrapposte, arrangiate, a proprio uso e beneficio, per diletto, per convenienza, per quieto vivere. Per fortuna l'inconscio è presenza vigile e può, se gli si dà ascolto nel sentire autentico e nei sogni, aiutare a districare, a svelare i trucchi, a trovare il vero, per non farsi irretire da ciò che, pur piacendo e dando immediato agio, pur trovando appoggio e conferma in altri e nel comune modo di pensare, non dà occasione di conoscere se stessi e di crescere.
sabato 13 aprile 2024
A quale porta bussare?
Non è infrequente che, se coinvolti in
esperienze interiori di malessere e sofferenza interiore, si cerchi negli
altri, che siano vicini come amici, conoscenti o parenti o cercati in rete come
dentro forum e spulciando in lungo e in largo opinioni, chi possa aiutare a
capire e soprattutto a trattare ciò che si sta vivendo. C’è poi la tendenza a
cercare sollievo nella constatazione che anche altri sperimenti o abbia
sperimentato qualcosa di simile e a questi, alle loro opinioni si presta più
ascolto e credito. Sembra di trarre utilità da questi apporti esterni,
disarmati come si è nel mettersi autonomamente in rapporto con quanto si vive,
inclini come si è prima di tutto a difendersi e a contrastare ciò che si sta
provando. Va perciò aperta una riflessione su quanto possa offrire e riservare
a sé cercare fuori opinioni e apporti. Raccogliere le opinioni di altri rischia
di non essere una gran soluzione, perché ognuno nel trattare l’esperienza personale
che gli si espone ci mette del suo di preconcetti, di modi, che gli sono
abituali, di trattare la propria esperienza, tipo delegare subito la
comprensione dei propri stati d'animo, questioni scottanti e esperienze alle
valutazioni e teorie dell’esperto di turno o, già prima di ascoltare e di
provare a capirsi, avere cura e premura anche da sé di appiccicare etichette
diagnostiche alle proprie e altrui esperienze , tanto arbitrarie quando si
avvicina un'esperienza interiore, complessa e unica, quanto sterili. Etichettare
non significa conoscere. Se oggi si è entrati in una spirale dell'allarme per
le proprie condizioni di salute, se mille dubbi si aprono sul proprio reale
stato, in tutto questo un senso e uno scopo c'è di certo. E' importante saperlo
cercare e riconoscere. Per far questo è necessario imparare a non ridursi a
agire e a metter sopra l'esperienza ragionamenti che non hanno guida e
fondamento in ciò che si sta provando, è importante smetterla di affannarsi nel
fare e nel cercare soluzioni e cominciare invece a esercitare uno sguardo
diverso volto a riconoscere il senso di ciò che si sta vivendo. Se sinora ci si
è ignorati, se nel proprio procedere solito si è cercato tutto fuori di sè,
diventando estranei o semplici ospiti abitudinari e disattenti in casa propria,
per casa intendo il proprio spazio intimo, se di se stessi più profondamente
non si è frequentato e conosciuto nulla, se non si è riflettuto, guardandosi
come dentro uno specchio, ignorando il vero stato della propria vita, del modo
di condurla, se da una parte si fa, si agisce, si confezionano ragionamenti e
dall'altra si sente e non ci si cura di entrare in sintonia e di ascoltare e
comprendere ciò che si sente, se si tira avanti in una modalità di vita senza
apertura e confronto con se stessi, non è forse vero, non risalta che, seppur
nella forma dell'allarme e del temere le più disparate incognite e sorprese sul
proprio stato, qualcosa sta costringendo a occuparsi di sè, che sta segnalando
con forza e con insistenza la propria lontananza da se stessi, la propria
mancanza di attenzione per la conoscenza, non superficiale e distratta, ma vera
e approfondita, di se stessi, di cura del rapporto con se stessi? Nulla sulla scena interiore accade mai per caso e senza un senso, senza
uno scopo. La porta a cui bussare è dunque quella altrui, che non può dare
se non apporti comunque impropri e fuorvianti, offrire consolazioni che
aumentano la diffidenza e la distanza da ciò che si vive nel proprio intimo o
la propria porta, imparando, casomai con l'aiuto di chi sappia dare contributo
utile a questo scopo, a entrare in relazione aperta e capace di ascoltare
la propria interiorità in ciò, che anche nella forma, che può risultare
difficile e sofferta, sta cercando di dire?
venerdì 12 aprile 2024
Il circuito della seduzione
La seduzione è il motore e è il vincolo su cui si avvita l'esistenza che ha preso forma e ha svolgimento dentro il legame di dipendenza da fonte e da guida esterne, un'esistenza e un modo di procedere in cui tutto è stato preso a modello e continua a essere preso e appreso da fuori. Non c'è vincolo allora più potente e decisivo, per stare dentro questa forma di esistenza, di quello di dare traduzione alla propria vita che onori e rispecchi quanto preso da fuori. Il vincolo fondamentale nel segno della seduzione, del portare a sè convalida e plauso a condizione di compiacere, è di dare prova e dimostrazione di adeguatezza e di possesso di attributi di valore ben codificati e ampiamente condivisi per ricevere conferma e sostegno di considerazione e di approvazione e nello stesso tempo ribadire e dare assenso e prova di fedeltà a ciò che da fuori può fornire quei sostegni e benefici. E' un circuito chiuso di compiacenza che costringe l'esistenza a declinarsi e a muoversi su questo binario, che non offre altra possibilità, a meno che dall'adesione cieca e supportata da illusorie attribuzioni di significato, che vogliono travestire di espressione di volontà, di intelligenza e di capacità proprie ciò che invece è espressione e conseguenza di docile passività nel seguire e interpretare un copione già scritto, non si passi alla riflessione per vedere cosa c'è in realtà in gioco nel proprio modo di procedere, cosa lo muove e cosa implica davvero per se stessi. E' questa la spinta che arriva dal profondo. L'inconscio infatti è pronto a mettere in luce cosa si sta facendo di se stessi, dentro quali vincoli e a che prezzo si sta impegnando se stessi in quella forma d'esistenza, in quel modo di procedere. L'inconscio è difesa delle proprie ragioni autonome d'esistenza, del proprio potenziale che in quella modalità di procedere rimane incolto, non riconosciuto e dunque sacrificato. L'inconscio è portatore e stimolo all'intelligenza vera, che è volontà e sviluppo di capacità di cercare e di leggere il vero, per non rimanere intrappolati nella nebulosa della falsa coscienza, dell'ingenuo stare al passo con l'illusione. Rendersi compiacenti, assecondare le attese di buona resa, per averne in cambio la gratificazione di essere ben considerati, prestarsi a questo e continuare a rendere omaggio a criteri guida e di valore che sono fedelmente onorati e serviti, questo circuito chiuso della seduzione comporta bilancio zero di scoperta autonoma e di costruzione di qualcosa di originale, compreso da sè, ben coltivato nella ricerca e nel dialogo con se stessi, bilancio zero di gioia autentica di scoperta con i propri occhi del vero e corrispondente a sè, di gioia di farlo vivere e crescere con passione. Questo non lascia indifferente l'inconscio, la parte profonda di se stessi, che non per caso smuove le acque interiormente, provoca crisi, alimenta malessere per toccare questi punti, questi nodi della propria esistenza. Il bilancio zero di costruzione crescita vera non lascia indifferente la parte che non accetta simile esito, che prima di tutto lo vuole segnalare, rendere riconoscibile. Bilancio zero perchè il presunto patrimonio realizzato, le presunte mete raggiunte altro non sono che prove date e ben inscritte nell'ideale e nella logica comune e data, di cui sono debitrici le presunte conquiste, che, senza quel supporto e quelle convalide da fuori, svanirebbero, non starebbero su. L'inconscio è l'unica parte viva di se stessi che non sta al gioco, che viceversa lo vuole smontare pezzo su pezzo, che vuole coinvolgere per intero l'individuo in questa ricerca del vero, guidandolo attraverso i vissuti e con i sogni, a prendere visione passo dopo passo, dei veri fondamenti del modo di procedere in cui si è coinvolto e di quanto ci sia di implicato di perdente per sè anche dove c'è apparente riuscita. La seduzione non è a misura e degno dell'essere, dell'individuo, che abbia desiderio e volontà di condurre avanti delle scelte di vita non per averne il contentino di essere apprezzato, ma per credo proprio e per passione sincera, avendo cura non di dare dimostrazione, ma di creare, di dare vita, di far di tutto per far esistere ciò che da sè abbia saputo trarre.
mercoledì 10 aprile 2024
E' possibile cambiare?
Si è quello che si è e nella sostanza è
difficile cambiare o c'è possibilità di cambiare veramente e profondamente?
Portiamo dentro di noi le possibilità del cambiamento, anzi di un cambiamento
radicale nel nostro modo di essere e di pensare, portiamo nel nostro profondo
tutta la volontà oltre che la capacità di alimentarlo, di condurci a produrlo.
Il problema è che molto spesso non c'è intesa e convergenza tra il volere del
profondo, la strada che propone e la mentalità e le pretese della parte conscia.
Quest'ultima si illude che i cambiamenti siano ottenibili con l'inventiva del
ragionamento, assumendo e professando nuovi credi, abbracciando nuovi principi
di valore e di comportamento, oppure consegnando l’attesa del cambiamento a
cambi di situazioni, prendendo da fuori, utilizzando il corredo di risorse
esterne già pronte e confezionate, mutando abitudini e luoghi, frequentazioni o
partners, come se da lì possa sgorgare nuova vita. La proposta interiore, che
traduce la volontà del profondo di coinvolgere l'individuo e di condurlo al
cambiamento vero, è viceversa del tutto ignorata e incompresa nel suo
significato e valore. La vicenda interiore, ciò che l'interiorità propone nel
sentire, nei vissuti, che in avvio di processo di cambiamento e proprio allo scopo
di aprirlo assume frequentemente carattere di crisi, di esperienze
interiori, di vissuti che possono risultare disagevoli e sofferti, non è riconosciuta
dall'individuo che la vive come forte richiamo e come primo segnale valido di
avvicinamento a se stesso e spinta al cambiamento vero, anzi è guardata
con preoccupazione, con timore e diffidenza. Sembra ai suoi occhi minacciosa e
avversa ai suoi interessi e con i suoi parametri di giudizio, presi da senso
comune, prontamente la parte conscia dell'individuo giudica la proposta
interiore, ciò che interiormente si fa così acutamente vivo dentro di lui nel
sentire, un che di inaffidabile, volto più a fargli danno, a togliergli
potenzialità, a debilitarlo e a invalidarlo che a dargli opportunità. Come
credere da parte di chi è abituato alla regola del presto sistemato e
soddisfatto, di chi ha come faro ciò che per i più è valido e desiderabile, che
ad esempio ansia, senso di fragilità, caduta di interesse e di fiducia in se
stessi, possano racchiudere delle opportunità, possano valere come terreno di
presa di coscienza e come primo passo sulla via del cambiamento? Tutto lo
sforzo della parte conscia è di tenere da subito alto il tono dell'umore, la
sicurezza, convinta di alimentare così lo "star bene", la capacità di
non perdere terreno, di non privare se stessi di ciò che pare normale e naturale
possedere. Se tutto del proprio modo di pensare e di concepire la vita si è
formato andando a rimorchio, seguendo l'educazione del così fan tutti,
facendosi dire e spiegare, facendosi bastare nei propri ragionamenti di
ripetere nella sostanza la lezioncina appresa, pur con qualche pretesa di
originalità, badando solo a stare al passo con gli altri, la reazione a ciò che
interiormente in realtà, se fedelmente e ben compreso, segnala con forza non i
sintomi di una poco valida capacità di procedere e di essere adeguati, bensì la
mancanza di aderenza a se stessi, l'assenza di radice nel proprio procedere e
pensare, la sostanziale mancanza di visione propria e di autonoma guida e
capacità di condursi, è di giudicare tutto questo che si muove interiormente
come guasto e pericolosa deriva, come disturbo da combattere, come patologia da
aggiustare. Ciò che interiormente, in modo assolutamente sensato e
intelligente, coinvolge e investe senza tregua con i vissuti d'ansia di un
senso di fragilità, di precarietà, di apprensione e di smarrimento, di
allarme e di pericolo, chi procede incautamente senza aderenza e intesa
profonda con se stesso, ciò che interiormente avvilisce e disarma con i vissuti
di scoramento e di mancanza di fiducia e di stima di se stesso, chi, al di là
delle apparenze (che possono convincere l'opinione comune, ma non la parte
profonda se stessi), non si è provvisto dell'essenziale, di un bagaglio di
conquiste proprie e di autonome scoperte, è tutt'altro che l'espressione di un
disturbo e il segno di un guasto, di un anomalo modo di sentire. La proposta
interiore, anche se difficile e dolorosa, contro ogni facile pregiudizio che la
considera nociva e malata, segno evidente di cedimento, è viceversa guida
provvida e intelligente per prendere contatto col vero, con se stessi. Se ci si
lavora con cura e seriamente, se ci si fa aiutare a farlo, come accade dentro un percorso di analisi ben fatta, lo si scopre,
lo si verifica, lo si comprende. L'iniziativa interiore, pungolando nel vivo,
non concedendo tregua, persegue uno scopo assolutamente positivo, vuole
spingere a vedere senza trucchi e senza veli il significato e il fondamento del
proprio modo abituale di procedere e di pensare, spesso sostenuti e confermati
più da fuori che da dentro se stessi, a riconoscere lo stato del rapporto con
se stessi, spesso segnato da lontananza e da estraneità al proprio mondo
interiore, per muovere da lì alla costruzione di qualcosa di autentico, allo
sviluppo di un pensiero e alla scoperta di una progettualità che abbiano
origine e radice dentro se stessi. L'incomprensione del senso, del significato
di ciò che interiormente si svolge e preme, non è casuale, è conseguenza della
mancata formazione e crescita della capacità di relazione col dentro, visto che
tutto l'impegno nel proprio corso di vita fino al presente è stato destinato a
prendere da fuori, a istruirsi, a interagire con l'esterno e con gli altri, a
prendere da lì le opportunità, a apprendere dalla fonte esterna contenuti,
guide e capacità di orientamento. L'esperienza interiore, il rapporto con
sensazioni, emozioni, stati d'animo non è stato oggetto di cura, non ha preso
forma, non è stata coltivata e sviluppata la capacità di ascolto e di dialogo
con la propria interiorità, anzi via via si è creata lontananza, distanza e
distrazione, disaffezione verso il dentro, sminuito, visto solo come eco banale
e piatto delle vicende esterne e come un seguito che doveva armonizzarsi e
seguire docilmente le petizioni di principio e i calcoli e le attese della
parte conscia razionale, chiamata a essere il motore trainante, la guida.
Partendo da queste premesse, rimasta incolta la parte che riguarda il rapporto
con se stessi, col proprio intimo, capaci solo di forte connessione col fuori e
scollegati e estranei alle vicende interiori, sottovalutate e messe semmai
sotto tutela della parte conscia, ecco l'incapacità di intendere cosa la
proposta interiore vuole e sa offrire. Il cambiamento di cui proprio la parte
profonda può essere promotrice e guida capace e che ha nel profondo di ognuno,
nell'inconscio il suo promotore, non è certo considerato possibile dalla parte
conscia, non è nell'ordine delle sue idee e aspettative, che la rendono più
incline e pronta a bloccarne l'avvio e lo sviluppo, invalidando come anomalo e
da correggere ciò che la proposta interiore avanza, che di riconoscerlo come
guida valida su cui fare conto. L'inerzia e la chiusura della parte conscia, la
sua incapacità di intendere le vicende interiori e di comprenderne il valore,
la sua ottusa salvaguardia del solito a cui affida tutta se stessa, il suo
dirsi persuasa di avere e di sapere già, il suo dar credito solo alle risorse
esterne e già pronte, il suo affezionarsi solo alle conquiste spendibili per
dare buona prova di sè agli altri, per riscuoterne l'apprezzamento, finisce per
stroncare e far cadere i richiami interiori, la proposta e l'opportunità del
cambiamento vero mosso dall'intimo, dal profondo. E’ dato invece credito a
ipotesi ingenue e sterili di cambiamento fondate sul niente, su soluzioni
esterne e mal concepite, che non possono che riportare sempre all'uguale. Non
si cambia per procura, affidando il cambiamento di sé a altro, non si cambia
con un cambio di abitudini e di pratiche esterne, non si cambia per petizioni
di principio. L'unica possibilità di cambiamento è legata al profondo di sè,
che non intende certo offrire un cambio d'abito. Cambiare significa seguire la
traccia viva segnata dalla propria interiorità, facendo un lavoro di presa di
coscienza, di verifica senza risparmio, lucida e onesta, imparando a coltivare
con la guida del profondo scoperte e idee fondate. La parte profonda di se
stessi, l'inconscio ha talento e capacità di indirizzare la ricerca, di guidare
il processo vivo di trasformazione mettendo in campo il sentire e tutta la
trama dei vissuti, che vogliono far fare esperienza viva per conoscere
nell'intimo la verità delle cose, mettendo a disposizione i sogni,
insostituibili fari per vedere dentro se stessi, per formare nuova visione, non
artefatta ma aderente, strettamente aderente al vero. Se i cambiamenti fatti di
invenzioni e di acrobazie della mente conscia e razionale, affidati a cambi di
ingredienti esterni sono solo ingenui diversivi e illusori, cambiare veramente
si può. Si può, cambiando profondamente se stessi, diventando se stessi,
assecondando la spinta profonda a aprire gli occhi, a generare il proprio
pensiero, a trovare le proprie risposte e la propria visione della vita, a
comprendere le proprie ragioni d'esistenza. Il cambiamento vero e radicale non
è un frutto già maturo e pronto da cogliere e da consumare come si è abituati a
fare, è un cambiamento da coltivare, è una trasformazione graduale da
condividere col proprio profondo, è una nuova vita da generare e da cui essere
rigenerati.
sabato 6 aprile 2024
L'analisi: chi conduce chi?
Premetto che si impiega il termine analisi
per definire una varietà disparata di approcci e di esperienze assai diverse
tra loro. Nel mio scritto parlo dell’analisi e del percorso analitico, come da
tanti anni da analista propongo e pratico, che mette al centro il rapporto col
profondo, che riconosce a questa parte del proprio essere un ruolo essenziale e
decisivo nella conoscenza di se stessi e nel promuovere la propria autentica
realizzazione. E’ motivo di sorpresa per chi inizia questo percorso analitico
ritrovarsi non già nella posizione di chi col ragionamento cerca di condurre il
discorso, di dirigere l’attenzione verso ciò che considera importante e
centrale per capire se stesso, ma nella posizione di chi è guidato nel percorso
di conoscenza da una parte di se stesso, parte intima e profonda, fino ad
allora trattata e pensata più come oggetto di indagine che come soggetto di
discorso. Compiere questa inversione è fondamentale e apre uno scenario
totalmente nuovo. Chi arriva in analisi è convinto di poter definire già il
campo di ricerca, i punti cruciali, le questioni che lo riguardano.
L’aspettativa è di indagare più attentamente e in profondità, preferibilmente
nel passato remoto, per arrivare a mettere in luce i fattori condizionanti e le
presunte cause, fatte risalire a responsabilità di altri preferibilmente, del
proprio malessere. L’idea, se presente, circa l’inconscio è che possa
attraverso l'analisi rendere finalmente riconoscibili episodi critici e verità
della propria biografia nascoste, rimosse e tenute dentro questa sorta di
contenitore, di strato profondo della psiche, perché troppo dolorose o
inammissibili alla coscienza, che dove finalmente emerse e riportate alla
consapevolezza segnerebbero una svolta, la liberazione da blocchi e da trappole
interiori limitanti e distorcenti il proprio sviluppo e benessere. Sottesa
all'impiego di questa teorizzazione, al favore per questa rappresentazione
dell'inconscio, la posizione vittimistica, la tesi, del tutto conservativa e
deresponsabilizzante verso se stessi che dice: se non ci fossero state
condizioni avverse e sfavorevoli, se non avessi subito questo o quell'altro per
traumi o accidenti, per negligenze o per negativa opera e influenza d'altri e
d'altro, non mi sarebbe toccato di patire sino a oggi disagi, di rimanere
invischiato nel malessere e tutto di me e del mio procedere (che non è in
discussione) sarebbe filato liscio e con garanzie per il mio benessere e la mia
libertà di espressione. L’inconscio, chiamato dentro una simile tesi a dare sostegno
coerente a questa posizione vittimistica verso se stessi, in realtà è ben altro
e di ben altro è portatore e capace. Nel percorso analitico di cui parlo lo si
può nitidamente vedere, toccare con mano e apprezzare. L’inconscio è prima di
tutto laboratorio e genesi di pensiero, non spiantato e aggregato al pensato
comune, ma riflessivo e capace di vedere nell’esperienza i significati veri, il
senso. L’inconscio è la risorsa interiore di cui si dispone e del cui valore e
potenziale si è in genere ignari, in grado di indirizzare in modo del
tutto nuovo e inatteso la conoscenza di se stessi, portandola fuori dal
labirinto dei soliti convincimenti e ragionamenti, per condurla sul terreno
fecondo della scoperta del vero. Se gli si dà spazio e parola l’inconscio sa
dire e orientare la ricerca con sapienza incomparabile. Lo fa magistralmente
con i sogni. Esercita inoltre la sua funzione guida regolando tutto il corso
del sentire, della vicenda interiore. Nulla di ciò che viviamo interiormente è
casuale, è accidentale, dettato e condizionato, in una meccanica relazione di
causa e effetto, da eventi e da stimoli esterni e basta. In ciò che proviamo,
in ciò che prende forma nel sentire c’è sempre un intento e una capacità di
segnalare, di dire. Se si porta attento sguardo sul sentire, si può
vedere ciò che il vissuto, lo stato d’animo, l’emozione scrive e descrive,
delinea, sa portare a riconoscere, toccandolo con mano, sensibilmente. Fare
intima esperienza, sentire è il modo più efficace di conoscere, se una cosa la si
vive la si può comprendere. A far la differenza quando, con l'intento di
capirsi, ci si mette in rapporto col sentire è la capacità di osservazione, di
tenere a freno il commento e la spiegazione, per arrivare viceversa e
gradualmente, proprio con la guida del sentire, alla scoperta, alla
comprensione. L’inconscio modula il sentire, lo plasma, lo indirizza offrendo
così basi e terreno vivo e efficace di scoperta di verità, compensando le
insufficienze, spesso le distorsioni del pensiero e dello sguardo cosciente,
non raramente parziale e astratto, incline alla ripetizione e al preconcetto,
catturato dalla superficie degli accadimenti, in difficoltà nella messa a fuoco
dei significati più intimi e profondi dell'esperienza. L'inconscio, spingendo
avanti le emozioni, il sentire, che se ascoltato sa rendere visibili le
implicazioni più vere dell'esperienza, sa aprire nuove trame e sviluppi di
conoscenza, corregge i fraintendimenti, spesso di comodo, funzionali a dare a
se stessi rassicurazione e conferma nelle proprie convinzioni e tesi, messi in
campo dalla parte razionale, che pure si illude di essere molto affidabile, in
contrapposizione con la presunta cecità e irrazionalità delle emozioni, nel
chiarire le cose, nel garantire obiettività. L'inconscio non solo interviene
nel sentire, nella regolazione di tutto il succedersi degli eventi interiori,
delle emozioni, degli stati d'animo, delle pulsioni, per dare base e terreno
sicuro di ricerca e di scoperta del vero, ma offre per la conoscenza di se
stessi un contributo eccellente nei sogni, dove esalta la sua funzione guida.
Lì mostra capacità mirabile di condurre a vedere dentro se stessi, lì trova
espressione tutta la sua autonomia, maturità e profondità di sguardo e di
pensiero. L’inconscio non è appiattito sulle cose, sulla visione preconcetta, è
autonomo da vincoli, dalle aspettative della parte razionale, non è
intrappolato dentro i circuiti di pensiero soliti e automatici. L’inconscio ha
saputo e sa compiere lo stacco riflessivo, vedere ciò che è coinvolto nella
nostra esperienza e nel nostro procedere, i modi, i perché, ciò che ci spinge,
anche in ciò che tentiamo di eclissare o camuffare. L’inconscio non è
interessato a risolvere, a far procedere le cose senza intoppi, a far venir a
capo in fretta di eventuali difficoltà pur di procurarsi beneficio immediato,
vuole la visione nitida di quel che c’è in gioco, il senso, vuole che non ci
nascondiamo a noi stessi. C’è nell’inconscio una tempra e una forza di
iniziativa che possono davvero sorprendere chi non lo conosce, chi non si
conosce in questa parte profonda di se stesso. Posso dire che l’inconscio, che
da tanti anni ascolto in svariate vicende interiori e percorsi analitici,
mostra una sorta di proprietà e di tratto che ricorre, pur nella diversità dei cammini,
sempre unici da individuo a individuo. L’inconscio non accetta la fatalità del
diventare passivi, dell’andar dietro, del modellarsi secondo altro,
dell’insistere nella simbiosi con l’esterno come unica idea di vita. Si parla
infatti spesso di realtà, di senso di realtà, riconoscendo come tale solo ciò
che è esterno, concreto, già concepito, in qualche modo già sistemato,
ordinato, fruibile, percorribile e dato. Reale è però qualsiasi movimento di
presa di coscienza, di nuova conoscenza che partorisca qualcosa di nuovo, che
faccia vivere qualcosa di inatteso. Siamo realtà noi stessi, se non ci
mortifichiamo nella ripetizione d’altro, siamo realtà in ciò che possiamo
generare nella presa di coscienza, far vivere dentro di noi e che da lì
possiamo progettare, sviluppare. L’inconscio, che è la nostra stessa matrice,
ciò che siamo e che abbiamo potenziale di comprendere, di tradurre, di
percorrere, di far vivere, di mettere al mondo, non compie la rinuncia, non
accetta un’esistenza che non tenga conto di questa capacità di pensiero
originale e di questa tensione creativa propria, un'esistenza che si riduca a
fare il verso ad altro già detto, concepito e organizzato, a venerarlo come la
Realtà cui aderire e su cui plasmarsi. Tanto malessere interiore che in varie
forme scuote, disturba il quieto vivere di non pochi, nasce da questa tensione
profonda a non rinunciare mai a guardare dentro se stessi, a non dare nulla per
ovvio, a non rinunciare a riconoscersi come soggetti, come artefici della
propria vita. L’inconscio non dà comunque ricette pronte e ingenue di
cambiamento. L’inconscio non induce a compiere salti, non asseconda affatto la
tendenza ad aggirare la difficoltà, l'interrogativo, a semplificare o a
omettere. Il processo conoscitivo deve essere completo, maturo, responsabile,
davvero capace di aprire gli occhi, di non ignorare, di trovare risposte valide
e complete, per non fare illusori passi avanti o semplici fughe. L’inconscio
non promuove cambiamenti fragili e contradditori, ambigui o insostenibili,
nulli nella sostanza. L’inconscio è maestro e, sogno dopo sogno, svolge
un’analisi completa, guida in un percorso conoscitivo originalissimo e nello
stesso tempo di straordinaria lucidità, veridicità e profondità. Nulla, come
l’inconscio nei sogni, sa essere altrettanto libero da ripetitività e da
preconcetto, nulla sa coniugare in pari modo acume di sguardo, libertà e forza.
L’inconscio esalta la vita, perchè esalta il pensiero, che sa cercare e
riconoscere l'intimo significato vero, senza posa. L’inconscio è infaticabile e
non cessa mai di dare spinta alla conoscenza, alla conoscenza che fa ritrovare
il senso, che avvicina a se stessi, che rende capaci di incontro col respiro e
con la complessità ricca della vita. Non ho mai incontrato tanta indomabile voglia
di aprire e di conoscere come nell’inconscio. L’inconscio non fa sconti,
non culla illusioni e autoinganni, la verità è sempre al centro delle sue cure,
la verifica attenta passo dopo passo, combinata a eccezionale lungimiranza. Chi
si affida al proprio inconscio ha la più affidabile delle guide e il miglior
maestro per conoscersi, per conoscere, per arricchirsi. Una fonte interna,
propria e straordinaria. Ignorarlo, vuoi per ignoranza del suo potenziale, vuoi
per diffidenza, senza avere l’occasione di conoscerlo come può accadere in una
buona esperienza analitica, è davvero una occasione persa, l’occasione di
arricchirsi di sé. Nel percorso analitico tutto, proprio tutto si scopre e si
genera a partire dalla proposta e dall’iniziativa della parte profonda di se
stessi. Qual'è il compito dell'analista? L’analista svolge bene la sua funzione
quando, consapevole di cosa può offrire all'altro aprendolo al rapporto col suo
profondo, lo sa accompagnare nella ricerca, incoraggiando e favorendo in lui il
formarsi e la crescita della capacità di ascolto e di dialogo con la sua
interiorità, mettendo al centro sempre la proposta che viene dall’inconscio,
cui prima di tutto spetta parola e guida. E’ una funzione delicata quella svolta dall’analista, vista
l’importanza della posta in gioco, che è far sì che l’altro si congiunga alla
sua interiorità e ne rispetti la proposta, ne comprenda e ne traduca fedelmente
gli intenti, senza favorire invece costruzioni di pensiero e travisamenti utili
solo a riportare tutto nel giro abituale dei convincimenti soliti e opachi al
vero, nella presa della pratica dipendente, della adesione e rincorsa cioè di
ciò che è dato comunemente per scontato, nell’imbuto del dare prova in cambio
del sostegno esterno e del premio di considerazione e approvazione degli altri.
Il lavoro dell’analista, se ben svolto nel rispetto e a garanzia dell’altro,
non si avvale del ricorso a spiegazioni e a interpretazioni già pronte, facili
da usare, ma improprie e fuorvianti. Per l'analista c’è un lavoro artigianale
da fare, che certamente richiede non poco impegno di tempo e di energie e che
nello stesso tempo ripaga di scoperte uniche e feconde, un lavoro consono a una
ricerca che rispetti e rispecchi l’originale della proposta interiore di
ognuno, che sappia accompagnare l’altro a stabilire un rapporto sempre più
aperto e intimo, un ascolto e un dialogo sempre più sintono con la sua parte
profonda. L’inconscio traccia, guida con mano ferma e capace, il percorso di
scoperta e di trasformazione, che conduce l’individuo a diventare se stesso,
non una immagine da mostrare, non una copia d’altro. L’analista ha il compito,
passo dopo passo, di dare all’altro spunti di ricerca consoni a ciò che il suo
profondo intende proporgli sia nei sogni che nei vissuti, coinvolgendo l’altro
nella ricerca, facendo sì che via via se ne renda sempre più partecipe attivo e
capace. Coltivare con cura con la guida del proprio inconscio e
portare a maturazione, lungo un percorso unico, la scoperta della verità di se
stesso, diverrà per l’individuo il fondamento della sua personale
autonomia, della capacità e della passione di mettere al mondo e di far vivere
il proprio, originale e autentico.
giovedì 4 aprile 2024
Il rapporto con se stessi
Se parlare di rapporto con gli altri risulta
realtà immediatamente riconoscibile e comprensibile, parlare di rapporto con se
stessi appare ai più cosa sfuggente, di scarsa visibilità e consistenza. Eppure
è quotidiano l'intervento che ognuno fa su e verso se stesso, ascoltando o meno
ciò che prova, offrendo a se stesso guida più o meno consapevole dei perché delle
sue scelte e risposte. Contemporaneamente, guardando dall'altro lato del
rapporto, è ben tangibile l'influenza che la parte intima di se stessi esercita
in ogni momento, mettendo in campo emozioni, spinte, stati d'animo e non solo,
se consideriamo che la notte, quando tutto fuori tace, quando la componente
conscia recede, lì accade il meglio e il più vistoso dell'iniziativa che
l'inconscio prende rivolta al resto del proprio essere, che in quel momento può
solo lasciarsi prendere e condurre, come accade nei sogni. Dunque il rapporto
con se stessi non è cosa astratta e impalpabile, è realtà viva. E’ una costante
in svolgimento attimo dopo attimo, ben riconoscibile e consistente. Semmai è il
rapporto con gli altri a essere comunque sporadico e discontinuo. E'
quest'ultimo però che ha riconoscimento e cui sono rivolte le più assidue
attenzioni e preoccupazioni come se fosse il centro e il luogo decisivo dell’esistenza.
Del rapporto con se stessi, di come si svolge, di quel che racchiude poco o
nulla ci si occupa e preoccupa. Nei frangenti critici, come accade in presenza
di disagi interiori, di pieghe non facili e inattese che prende il proprio
sentire, la risposta è spesso sorda e ruvida, sbrigativa e intollerante,
facendo prevalere la voglia di disfarsi della difficoltà e del momento critico
su quella di ascoltarsi, di confrontarsi con pazienza e con attenzione con se
stessi, con la propria interiorità. In queste circostanze ciò che la propria
interiorità rende acuto è visto più come intralcio, come cattivo funzionamento
da superare e possibilmente spazzare via, come accidente da temere e combattere
che come momento vivo di incontro con la parte intima di se stessi. Nessuna
fiducia che ciò che si sta provando possa dire qualcosa di importante, di
centrale, che sappia e che voglia comunicare, nessuna idea di rapporto, di
possibile dialogo con la propria interiorità. D’altra parte si è così abituati
a procedere tenendo in posizione marginale e subalterna tutto ciò che di se
stessi esula da ragionamenti e da iniziative della parte che funge da testa che
conduce, che è comprensibile che la risposta a ciò che interiormente si è reso
più difficile sia di cacciare via e mettere a tacere come una molestia o come
un preoccupante cattivo stato ciò che si sente, che si è convinti possa solo
recare a se stessi danno. Dunque il rapporto con se stessi prende spesso una
forma, ha un suo svolgimento, a ben vedere, tutt'altro che esaltante e però non
pare questione rilevante, non la si riconosce come tale, perciò non diventa tema
di attenzione e di riflessione. Non solo non è una priorità, ma non è motivo degno
di attenzione, ancora meno di preoccupazione e di cura. Quel che conta è non
perdere il legame con la cosiddetta realtà, che è sempre cosa che sta là fuori.
Più importante e di interesse vitale è occuparsi del rapporto con gli altri, visto
appunto come teatro principale della propria esistenza, luogo dove si addensano
le personali attese, gli entusiasmi, anche se fugaci, oltre che le
recriminazioni, le pene e i tormenti. E' del rapporto con gli altri, con altro
che sta fuori che ci si ostina a occupare e a discutere, è lì che si riconduce
tanto o tutto di se stessi, come se la propria vita e la propria personale
cifra fossero lì raccolte e messe in gioco. Addirittura c'è un'etica, non da
pochi condivisa e propugnata, che biasima il dare peso, il rivolgere interesse
al proprio stato e l'occuparsi troppo di se stessi, il tutto giudicato come
segno di egoismo e di egocentrismo, di rimuginazioni sterili e di ripiegamenti
insani, per esaltare viceversa il valore morale e ideale del dare interesse e
attenzione agli altri. Si ignora che ciò che si rivolge all'altro è della
stessa pasta e qualità di ciò che si rivolge a se stessi, che ciò che si fa
verso l'altro è né più né meno ciò che si è abituati a fare verso se stessi. Se
si è incuranti di ascoltare e incapaci di intendere cosa il proprio sentire
dice, se gli si mette sopra, spacciandosele per riflessione e chiarimento,
spiegazioni costruite razionalmente, spesso di comodo, che, dando peso e
centralità a condizioni e a condizionamenti esterni e a responsabilità altrui,
chiudono lo sguardo su se stessi, anziché aprirlo, come si potrà essere capaci
con l'altro di ascoltarlo e di incoraggiarlo a ascoltarsi e a riconoscere con
trasparenza e fedelmente ciò che il suo sentire vuole fargli sensibilmente
riconoscere e capire di se stesso? Se si è ostili a ciò che interiormente
risulta doloroso, se si è in fuga e pronti a cercare ogni mezzo per evadere,
per aggirare o per dissolvere il proprio sentire spiacevole, sostenuti
dall'idea che stare bene significhi (affermato come un principio di salute e
rivendicato come un diritto) non portare pesi interiori e non patire tensioni,
come si potrà dare all'altro, se a sua volta proporrà disagi e esperienze
interiori difficili, risposta diversa dal cercare di sostenerlo nello sforzo e
nella petizione di trarsi presto fuori e al riparo dal suo sentire disagevole e
sofferto, di cui si considera vittima e che vive come ostile? Nel dialogo con
l'altro, come si è abituati a fare con se stessi, sarà fatale assecondare e
dare manforte alla tendenza dell'altro a costruire spiegazioni del suo
malessere, in apparenza logiche e coerenti, che, puntando lo sguardo più
all'esterno che all'interno, spiantate e senza accordo con ciò che il suo
sentire vorrebbe fargli comprendere, lo aiuteranno soltanto a procurarsi
temporanee rassicurazioni e conferme di ciò che è solito e che gli è gradito
credere, non certo a avvicinarsi a se stesso e a prendere coscienza del vero.
Quel che si fa con l'altro è né più né meno quello che si fa con se stessi, non
si cambia magicamente, non ci si può inventare in presenza dell'altro qualcosa
di diverso da ciò che si è prodotto nel confronto vivo con se stessi, con la
propria esperienza. Dedicarsi a se stessi, lavorare su se stessi, portare a
maturazione un rapporto aperto e dialogico con la propria interiorità, è
prioritario e decisivo, muta la qualità delle proprie risposte possibili a se
stessi e di conseguenza anche all'altro, ben contro e diversamente dall'ingenuo
credo di chi, non pochi, sostiene che occuparsi di se stessi sia angusto e
sterile e che viceversa occuparsi di altri o del prossimo liberi chissà quali
migliori sentimenti e orizzonti di pensiero e ideali.
lunedì 1 aprile 2024
La dissociazione
Il termine dissociazione è abitualmente riservato a stati psicologici considerati anomali, patologici, ben difficilmente si è disposti a applicarlo per descrivere la condizione base e la costante del modo di procedere e di stare al mondo considerato normale e sano. In realtà la dissociazione è espressione tutt'altro che impropria per descrivere la condizione cosiddetta normale, in cui il rapporto con la parte intima e profonda, per mancanza di incontro e di vicinanza, di capacità di ascolto, di dialogo e di intesa con la propria interiorità, con ciò che si sente, che vive dentro se stessi, è di sostanziale disunione. Un vero stato di disunione e discordanza tra parte conscia e intimo profondo. Mica è poco, perché, senza un simile legame e intesa, senza trarre da lì, dalla connessione col proprio intimo e dall'ascolto di ciò che si muove in se stessi, dal proprio sentire, guida e ispirazione, nutrimento e sostanza per capire, per capirsi, si è solo affidati all'iniziativa isolata della propria testa che, dissociata dal sentire, impiega i ragionamenti per capire e che, priva di guida interiore, altrove cerca e trova indirizzo e che da altro che sta fuori nel pensato e nei modelli comuni prende ispirazione e suggerimenti, guida e sostanza di pensiero. Conseguenza di questa dissociazione dal proprio intimo e profondo? Non conoscere nulla di vero e di fondato di sè, non scoprire traendolo da se stessi e comprendendolo davvero e su basi di sguardo e di verifica propri cosa è importante per sé e perché, non avere prima comprensione dei propri modi di procedere abituali e poi e via via del significato autentico e delle ragioni della propria vita, non avere su queste basi la capacità di condursi autonomamente e di governarsi. La conseguenza è ritrovarsi di fatto al traino di ciò che da fuori definisce ciò che vale e che si può o deve perseguire e dimostrare, di cui si deve dare prova. Poco importa che si cerchi di sfuggire all'omologazione e al conformismo nei modi di pensare e di agire, in mancanza di una visione sincera e autentica di se stessi e del proprio modo di procedere, ogni tentativo di differenziarsi e di dire la propria rischia di ancorarsi a nuova ideologia, di trarre forza solo dal contrasto e dall'opposizione, dunque in appoggio e trovando sponda in ciò che è largamente già concepito. Le cause e le soluzioni per la propria emancipazione e per il desiderio di dire la propria finiscono per essere più cercate all'esterno che dentro, il terreno di lavoro è già dislocato fuori e non dentro. Se il profondo interviene con decisione sul piano intimo, se insiste nel tenere se stessi sulla corda e nel vincolare al proprio malessere è per fare intendere che è di se stessi che ci si deve occupare e prendere cura, che l'attenzione ad altro non è la priorità, che allo stato attuale si è davvero in cattivo stato finché non si arrivi a formare solida base propria, superando la dissociazione che rende monchi di una parte vitale e fondamentale di se stessi con cui invece si ha necessità di costruire un rapporto. Questo rapporto, questa ricomposizione dell'unità con se stessi è imprescindibile e essenziale per diventare individui consapevoli, per avere una visione propria della propria vita e di se stessi, per non essere solo individui a norma e copia di altro, cioè normali, semplicemente adeguati e al passo con ciò che si sostiene essere giusto e valido comunemente, per non darsi illusione di essere liberi solo per assunzione di un credo diverso, solo per assunzione di idee, il più spesso di ideologie, contro. In presenza di segnali intimi di tensione e di malessere però o tutto viene ricondotto a cause e a pressioni esterne o liquidato come una propria anomalia da correggere, da curare, nel verso del provare a metterla a tacere e raddrizzare. Squalificare come espressione di insufficienza e di inadeguatezza, se non addirittura di patologia, ciò che interiormente dà l'allarme e invita a provvedere a apprestarsi a profondi quanto utili cambiamenti, a conquiste di consapevolezza fondamentali e non rinviabili, è un'ingenuità assai poco favorevole ai propri interessi, è l'espressione di un pensiero dissociato, anche se ben sostenuto e convalidato da esempio e mentalità comune, da apporti di cosiddetta scienza medica o psicologica, come attendibile e giusto. L'individuo affidato al governo della parte pensante razionale, dissociato dal legame col proprio intimo, pretende, persuaso di perseguire il proprio bene, di agire sull'intimo imponendogli la sua logica, ben indirizzata e corroborata da fuori, dalla mentalità e dalla pratica comuni e da tutto il pensato e organizzato circostante. Su queste basi chi è alle prese con segnali di crisi e di malessere interiore invoca e persegue come scopo valido il ripristino dello stato solito, ricacciando nell'anomalo ciò che interiormente vuole invece spronarlo e condurlo a salvarsi, a lavorare efficacemente su di sé per prendere davvero in mano la propria sorte. Solo lavorando su se stessi e in unità col proprio profondo è possibile avere visione veritiera di sé, vedere ciò che risale a sé nel portare avanti modi di essere e di procedere tutti in appoggio e in dipendenza da altro. Solo in stretta unione e ascolto della propria interiorità è possibile portare a maturazione la visione propria autonoma e ben compresa e verificata di ciò che è importante e che si ha potenzialità di far vivere, di realizzare. Solo la parte profonda di se stessi ha capacità di essere la propria fonte ispiratrice e guida di pensiero nuovo e vitale, fondato e autonomo, senza il quale non si può che infilarsi nelle corsie del pensato comune, pur con tutte le apparenti alternative. Solo in unità con il proprio profondo è possibile rompere il legame di dipendenza da ciò che fuori fa sì da supporto, ma anche da limite e da incastro della propria realizzazione umana.
mercoledì 20 marzo 2024
Simbiosi con altro e fuga da se stessi
Rimetto in primo piano un mio scritto di qualche tempo fa, in cui affronto una questione che considero fondamentale.
Il
legame con tutto ciò che, esterno a sè, si presenta come un insieme strutturato
e organizzato (la cosiddetta realtà), fruibile come supporto e veicolo
d'esperienza, capace di offrire soluzione pronta per ogni necessità, di
indicare modelli, percorsi, tappe da seguire per dare risposta a ogni esigenza
di soddisfazione e di espressione personale, di crescita e di
autorealizzazione, è questione da tenere ben presente per capire la
problematica del rapporto con se stessi, con tutto ciò che si propone nell'esperienza
interiore. Ho più volte sottolineato nei miei scritti la pericolosità e
l’insensatezza di opporre rifiuto preconcetto e di squalificare come insano e
deleterio tutto ciò che da dentro se stessi, dal proprio profondo, si impone
come disagio interiore. Il rifiuto è ripudio di una parte capace, creativa e
intelligente di sè, la squalifica è bocciatura della propria interiorità, che
nel sentire, pur doloroso e tormentato, in realtà dice, suggerisce, vuol far
comprendere qualcosa di centrale e di decisivo di se stessi, vuole aprire e
promuovere processi trasformativi e di crescita importanti, necessari e
favorevoli. Ebbene, a spingere fortemente verso una simile intolleranza e fuga
dal proprio sentire disagevole e sofferto, con un atteggiamento e con un modo
di pensare che sentenzia, dandolo per scontato ed evidente, che si tratterebbe
solo di disturbo, se non di malattia, che menoma e danneggia, è proprio il
legame di dipendenza dall’esterno, da un insieme vissuto come fonte vitale,
capace, in apparenza, di dare risposta pronta a tutto, di offrire essenza,
contenuto e senso del vivere. Guai a perdere contatto e legame stretto con
l‘esterno, a sentirsi in qualche misura tagliati fuori, ostacolati nel
mantenere scambio e presenza nell’insieme dato, guai a limitare o compromettere
il contatto con altri individui ritenuti decisivi e fondamentali, guai ad
allentare il legame con la realtà esterna! Pare e è temuta come una drammatica
perdita di sé. Se da dentro se stessi la propria interiorità col malessere esercita
una presa, questa è vissuta prima di tutto come un preoccupante ostacolo, come
l'impedimento all’abbraccio col fuori, dove pare ci sia tutto. La presa forte
dell’intimo che coinvolge e che trattiene, certamente non è l'espressione
di un pericoloso cedimento, di un guasto o di una malattia, ma di una
decisa e incalzante sollecitazione del profondo all'avvicinamento e al dialogo
con se stessi, perchè si esca dalla condizione di passiva adesione a modalità e
a scelte di vita non comprese davvero, perchè prima di tutto le si guardi
nell'intimo, per avviare scoperta e formazione di idea propria e autonoma
attorno alla propria vita ( può rendersi indispensabile un aiuto per formare e
per sviluppare questa capacità di rapporto con l'intima esperienza). Viceversa
la presa interna di sensazioni difficili e impegnative appare subito come una
disgrazia, come un pericoloso motivo di ritardo rispetto alla corsa comune,
come il rischio di deriva e di caduta nell’abisso del niente. Simile visione
del rapporto con la propria interiorità e dell’intimo legame con se stessi, se
da un lato è conseguenza di abituale lontananza da sè e di non familiarità col
dialogo interiore, di mancanza di fiducia nel rapporto con la propria
interiorità e di ignoranza del significato dell'esperienza profonda, dall'altro
è certamente alimentata, esasperata dall’angoscia di perdere la continuità del
contatto e dello scambio con ciò che, esterno a sè, da troppo tempo è vissuto
come il riferimento fondamentale, come l’habitat naturale, come l'alimento
vitale unico e insostituibile. Il vincolo a se stessi, reso obbligato e
stringente dal malessere interiore, è vissuto come rischio di uscita dal reale,
come pericoloso fattore di isolamento e di privazione, quasi di sradicamento,
senza speranza e senza promessa. E’ decisamente un paradosso. Andare verso se
stessi è in realtà il primo, necessario movimento vitale, per congiungersi a
sé, per trovare la propria "terra", per ritrovare fondamento e
radici, per cominciare davvero a vedere con i propri occhi, a comprendere per
intimo sentire, per orientarsi. Ben sostenuti da un profondo che dà e che dice,
come mirabilmente il proprio inconscio sa fare con i sogni, oltre che col
sentire (serve però un aiuto per comprendere e scoprire tutto questo), in questo
incontro con la propria interiorità si potrebbe finalmente riconoscere se
stessi, non per ciò che è riconoscibile dagli altri, non per ciò che può
rendere adeguati o validi ai loro occhi, ma per ciò che si è davvero, per ciò
che si prova, per ciò da cui si è mossi e che vive dentro sè. Andare verso se
stessi significherebbe cominciare a ritrovarsi, uscendo dalla condizione di
sconosciuti a se stessi, spesso impegnati in un movimento ritenuto tanto
normale quanto nella sostanza sterile e insensato, paghi solo di non esser da
meno d’altri o fuori dai circuiti comuni d'esperienza. L'incontro con se stessi
potrebbe avviare un percorso di presa di coscienza e di sviluppo di pensiero,
che da semplici consumatori di una vita già pensata e fruibile nelle forme date,
potrebbe rendere protagonisti e artefici di comprensione propria dei
significati, di scoperta di ciò che per sè vale e del suo perchè, di progetto
autonomo. Tutto va però formato e sviluppato, cosa che nella modalità solita di
procedere, dove tutto è immediatamente fruibile e traducibile, è una sorta di
novità incomprensibile, se non di anomalia. Per andar dietro, per sintonizzarsi
col senso comune e con idee già in uso, per farsi condurre, confermare e dare
convalide esterne, ci vuol solo spirito adattivo e gregario, non importa se in
apparenza, camuffato da illusorio possesso di spirito critico e di autonomia,
spesso solo di facciata e inconsistenti. Per formare visione e conoscenza
proprie, per dare forma sentita, coerente con se stessi, alla propria vita, per
generare il proprio, per farlo crescere, con soddisfazione nuova e profonda,
serve ben altro, è necessario un lavoro, una ricerca personale, prima di tutto
è necessario convergere verso se stessi, imparare ad ascoltarsi, a cercare
nell'intimo del proprio sentire le guide per capirsi, per capire. Capita
invece, succede frequentemente, che anzichè riconoscere nell'esperienza della
stretta interiore, del malessere vivo, la possibilità e la necessità non
rinviabile di incontro con se stessi, il richiamo a una verifica approfondita,
anzichè proporsi come priorità l'ascolto e la comprensione di sè, si
respinga fermamente, si squalifichi disinvoltamente (prendendo per oro
colato l'equazione: doloroso= sfavorevole e dannoso) ogni pungolo e richiamo
che venga dall'interno, perchè difficile e sofferto, perchè discordante dalle
attese e scomodo, a prendere contatto con se stessi, a iniziare a interrogarsi
nel vivo, a ritrovarsi davvero. Ben connessi con l'esterno e disconnessi da sè,
in fuga, pur senza ammetterlo, da ogni tentativo di veder chiaro e puntuale, di
capire davvero cosa si sta facendo, paghi di definizioni e di perché
convenzionali, di spiegazioni arrangiate, anzi, in non pochi casi, con la
clausola, benedetta da mentalità corrente, che saper vivere significa saper
stare a mezz'aria (spensieratezza, leggerezza, non dar peso…), alla fin fine ci
si adatta alla passività dell'andar dietro, alla provvisorietà,
all’indecifrabilità del proprio essere, incuranti di sapere, compiaciuti di
rinviare, di tener lontana la verifica, di sopire la preoccupazione di trovare
il filo vero ed unitario del proprio procedere e fare. In questo modo di
procedere ciò che conta non è prendere davvero in mano la propria vita, che
richiede fermarsi per entrare in contatto, in ascolto e in sintonia con la
propria interiorità, sia per vedere nitidamente, con coraggio e sincerità, il
vero della propria condizione attuale, sia per comprendere della propria vita
il significato e lo scopo autentico come profondamente concepito, desiderato,
voluto. Tutto questo è fuori dal proprio sguardo e dalle proprie mire, perchè
sembra bastare ciò che si conosce o che ci si illude di conoscere di se stessi
e del significato della propria esperienza, perchè ciò che conta e urge è non
perdere contatto con altro, è non intralciare l'andar avanti tra una cosa e
l'altra, legati a questo o a quello, è non incontrare ostacolo o ritardo
nell'inseguimento di una cosa o dell'altra, su cui esercitare o mantenere la
presa. Nella condizione di simbiosi con altro da sè, in cui, scontatamente,
quasi automaticamente, ci si fa dare da altro un che di essenziale (e
fatalmente ci si lega a questo altro, consegnandogli il proprio apporto vitale
di tempo, di energie e di dedizione, per confermarlo e per tenerlo in vita),
non si sa e non si vuol vedere con chiarezza cosa sta accadendo, ci si persuade
che tutto è normale, facendo conto su esempio e credo comune, su comune
andazzo. Tutto è normale e l'interiorità che stacca, che col malessere
complica, che vorrebbe far vedere chiaro, è giudicata subito l'anomalia da
mettere a tacere. La simbiosi con altro da sè, sia che questo altro sia cosa,
mentalità, abitudine o persona, una o più, elette a riferimento o a ragione di
vita, è continuamente confermata come condizione di vita irrinunciabile e sana,
con tutta la consacrazione fatta dal pensiero comune, che per esempio
incoraggia e premia l'attaccamento alla "realtà", che stigmatizza
ogni movimento di ripiegamento, di avvicinamento a sè, a meno che non sia
fugace e finalizzato al pronto rientro nell'insieme. Non da meno la
simbiosi è sostenuta e prontamente rinvigorita dall’apparato di sostegno delle
stesse cure di non pochi curanti, che non smentiscono certo l’idea che prima di
tutto bisogna scacciare la crisi interiore, staccare dal dentro, per rinsaldare
i legami col fuori. L’invito a spensierarsi, a dar peso e valore esclusivo a
quel che c’è, ai legami con altri e con altro, a rinsaldarli, a renderli
motivanti o rimotivanti per riprendersi, a leggere il malessere interiore solo
in dipendenza e in funzione d'altro, l’aggiunta di droghe (psicofarmaci) per
metter ordine, per tentare di zittire l’ansia e ogni altro fastidioso sentire,
per ripristinare l’ordinato "sano" procedere libero da richiami
interiori, sono il contributo curativo all’andar via da sé. Sono la riconferma
della fatalità, dell'ovvietà della simbiosi con l’esterno, con altro, che già
scontatamente darebbe volto, contenuto e definizione alla propria vita, senza
necessità di capire nulla, senza possibilità di cambiare nulla, di scoprire e
di generare nulla di diverso, di aprire nuove strade, originali e conformi a se
stessi.
Il controllo
Il controllo è la forma più frequente di rapporto con tutto ciò che si vive e di cui si fa esperienza interiormente. Da un lato c'è la consegna alla parte conscia del compito di dirigere le operazioni di pensiero e decisionali, di indirizzo nelle scelte, di spinta e di tenuta volitiva nelle decisioni prese, dall'altro le espressioni della vita interiore, dalle emozioni, agli stati d'animo, dalle pulsioni a tutto ciò che, esercitando presa e coinvolgimento, interviene nell'esperienza, è considerato materia da regolare e da tenere sotto controllo. I significati dei vissuti, di quanto si propone intimamente, sono spesso prontamente dedotti e, fatti rientrare nell'orizzonte del pensiero abituale, sono dati in qualche modo per già acquisiti, soprattutto vagliati sul grado di coerenza con ciò che si è abituati a ritenere valido e accettabile. L'interferenza, il mancato accordo e sostegno di stati d'animo e di moti interiori, che non garantiscono la stabilità dei propositi e la continuità del percorso che si sta e che si vuole seguire, induce a mettere in opera subito la forza di interdizione del ragionamento e la pronta mobilitazione di ogni energia possibile a difesa di quelli che sono considerati i propri legittimi e validi interessi. La preoccupazione circa l'incoerenza o le minacce di intralciare gli intenti e i convincimenti razionali esercitate da ciò che si sente o che, in adesioni a spinte interne, ha prodotto conseguenze sul comportamento, che paiono affatto favorevoli e promettenti, alimenta la necessità di tenere a bada, di riportare sotto controllo simili spinte e moti interiori. Se intervengono ad esempio impaccio, timore, ansietà o l'umore, anziché sereno e fiducioso, si oscura, questi svolgimenti interiori, imprevisti e indesiderati, diventano presto bersaglio di una critica che pretende altro. Talora c'è il tentativo di spiegare, di trovare una causa, fermo restando che tutto dovrebbe svolgersi diversamente rispetto agli esiti giudicati infausti che quegli eventi interni stanno minacciando di provocare. Dunque anche l'approccio che pare più aperto, volto a capire, parte sempre dal presupposto e dalla pretesa che tutto debba svolgersi nel modo voluto e programmato, mai messo in discussione e fatto oggetto di attenta verifica, indisponibili dunque a ascoltare e a recepire ciò che il sentire che si è messo in mezzo o di traverso nell'esperienza vuole e sa dire. Questi interventi del sentire e dell'intimo, tutt'altro che sciagurati o espressione di un che di insano e di difettoso, sono viceversa un valido e tempestivo contributo per aprire una attenta presa di visione riflessiva su ciò che si sta facendo e perseguendo, sono uno stimolo, sono una mossa decisa dal profondo, per dare primato all'esigenza di capire ciò che si svolge nell'esperienza, di capirsi. Sull'aver da dire in relazione a altri, a cui può frapporsi impaccio e mancata fluida parola, prevale per esempio l'istanza di capire cosa e perchè dire, vincolati a quale esigenza e per produrre che cosa. Sull'ottenere buona prova prevale nelle intenzioni del profondo, che anima tutte le spinte e gli interventi del sentire, l'istanza di capire a che scopo si vogliono ottenere i risultati voluti, per rispondere a quale bisogno o aspirazione, dentro quali vincoli. La parte profonda non è cieca, l'inconscio vuole alimentare la presa di coscienza e non la riuscita ad ogni costo. La presa di coscienza vale, è essenziale per costruire il fondamento di una visione che permetta capacità di orientarsi, di trovare in accordo con se stessi la comprensione del vero, di collocare nelle proprie mani la capacità di scegliere e di dirigersi, di autogoverno maturo e saldo. Pare sfavorevole la mancata riuscita dei propositi abituali, la mancata prestazione, ma ciò che più vale, che il profondo fa valere con i suoi interventi nel sentire, è l'esigenza di non procedere ciecamente a testa bassa, di capire, di porre le basi per riconsegnare a se stessi il compito e la facoltà di comprendere, di vedere da sè con i propri occhi cosa è importante e valido e perchè e per perseguire scopi da sè riconosciuti come significativi e appassionanti. Fare di sè, come spesso accade, uno strumento per ben figurare e per servire le attese o presunte attese altrui di buona prova, per riceverne plauso, conferma e apprezzamento è una cosa, è una scelta dipendente e succube, riservare a se stessi invece la facoltà di riscoprire il significato e il valore della conoscenza in accordo e in unità con se stessi, con tutta la libertà e la soddisfazione, seguendo propri originali percorsi, di scoprire e di comprendere significati e valori per intima esperienza, anzichè desumere significati e farseli dire da altro e riprodurli da bravi scolaretti, è tutt'altra storia. L'interiorità non ha e non asseconda spirito gregario, ma lavora per coinvolgere nella ricerca e nella scoperta del vero. Se delude le aspettative è per capacità e per forza d'animo, che possiede, di promuovere consapevolezza, fonte di crescita e leva di conquista di autonomia. Grande è la miopia e il fraintendimento di ritenere che interiormente tutto debba filare per il verso che si vorrebbe, quando è proprio la parte di sè interiore, se rispettata e saputa ascoltare, che può offrire il meglio, l'alimento alla propria realizzazione autentica, non confusa con la buona resa dentro i criteri prevalenti di riuscita e le guide comuni per ottenerla e per darne prova. Da tenere sotto controllo non è la propria interiorità perchè non disturbi e si uniformi, ma il proprio procedere e pensare, da vigilare e da verificare con attenzione, perchè non è affatto detto che sappia garantire la miglior realizzazione di se stessi.
mercoledì 13 marzo 2024
L'ospite indesiderato
Tutto si vuole includere nella propria vita perchè le dia più opportunità di sviluppo, meno che ciò che vive dentro se stessi. Si vuole che questa parte di sè fondamentalmente non disturbi, che intervenga come si gradisce che faccia, che si disciplini e si corregga se non fa da buon gregario per i propositi che si vogliono perseguire, che taccia e si levi di torno se gli crea ostacolo. Le si mettono sopra le spiegazioni e i commenti in apparenza più ragionevoli, in realtà i più strampalati, che come tali si rivelano quando si ha la bontà e l'intelligenza di ascoltarla, di intendere fedelmente ciò che dice. In modo rigido e ottuso, senza prestare ascolto, si riversano sul conto di ciò che si vive interiormente i luoghi comuni, si dà per scontata la logica comune. Tutto deve procedere in un'unica direzione. Se insorgono segni discordanti di malessere rispetto all'istanza che tutto si svolga senza ostacoli, interviene prontamente il fai da te dei tentativi di controllo, di ricerca del rimedio, sia nel verso di provare a allontanare e dissolvere ciò che interiormente risulta spiacevole, dell'evadere, del cercare qualche distrazione e investimento sostitutivo, sia del tenere sotto tutela e controllo fin che si può, l'esperienza intima da subito intesa come ostile e inopportuna, indesiderata, tutto per non compromettere la marcia abituale. Se non bastano questi espedienti ecco il ricorso alle cure, le solite e più convenzionali del metterci qualche farmaco per sedare o per tirar su, in ogni modo per manipolare ciò che si sente. C'è poi il ricorso alle psicoterapie, a partire da quelle, oggi più in voga e diffuse, che vantano pretese di scientificità, di impronta direttiva, di tipo cognitivo comportamentale, che ribadiscono il ruolo egemone della parte conscia razionale chiamata a intervenire, sotto la guida del terapeuta, per prendere atto del carattere disfunzionale, a sè sfavorevole, di modalità di pensiero e di conseguenti vissuti e risposte emotive (tipo ansia, paure, insicurezza, sfiducia e bassa autostima ecc.), ritenute distorte e irrazionali, da correggere, sostituire e riplasmare con l'apprendimento di modi di pensiero più valido e razionale, a supporto di risposte emotive, giudicate sane e adeguate, funzionali a un procedere che, nelle coordinate di ciò che è solitamente concepito come valido e normale, voglia essere favorevole e soprattutto indisturbato. Le stesse psicoterapie che vorrebbero essere introspettive e, con varie denominazioni, analitiche non mettono spesso in forse il ruolo egemone della parte pensante razionale chiamata a indagare, spiegare, interpretare fino a scovare nell'intimo, nel profondo presunte cause ignote di un malessere che lì troverebbe la sua origine. Arrivano poi annunciate con colpi di festosa grancassa le cure di ultimo grido, le nuove pensate, presentate come ultimissime scoperte e risultato dei progressi della scienza. Sono le nuove tecniche che promettono di liberare da intoppi, da conseguenze nefaste di traumi, da accidenti vari, casomai di incrementare il rendimento, ingegnose pensate che tutte partono dal presupposto, mai in discussione, che il meccanismo, che il presunto meccanismo della psiche, se in salute, debba girare a dovere, che, se c'è crisi e malessere interiore, da qualche parte si sia inceppato, che in qualcosa per qualche causa nefasta non renda come dovrebbe. Americanate del cavolo, spacciate per progressi e mirabolanti scoperte scientifiche, che hanno comunque il buon supporto e che trovano pronta credula accoglienza nell'idea comune che se c'è malessere significa che c'è guasto e necessità di rimedio, possibilmente facile e veloce, fatte salve dunque e fuori discussione tutte le condizioni del procedere, mai oggetto di riflessione, di attenta comprensione e verifica. L'intimo, ciò che si fa sentire, che interiormente accade, non ha significato se non per il contributo che dà o che non dà al procedere che si vuole far girare a senso unico e persistere. Non c'è alternativa. L'interiorità si spende per dare segnali di necessità di verifica. L'inconscio mette a disposizione l'intelligenza di cui dispone, che non venduta al senso comune e alla necessità di tenere su l'edificio di una realizzazione di se stessi tutta da verificare e capire nei suoi fondamenti, vuole spingere a guardare con attenzione nel proprio modo di procedere, per non perdersi nell'illusorio, per non fallire i propri veri scopi, tutti casomai da riscoprire. Questa parte del proprio essere, che scuote, che nel sentire dà segnali tutt'altro che di malfunzionamento o di preoccupante dissesto, ma mirati a aprire spazi di ricerca, a avvicinare e portare lo sguardo su di sè e non come è abituale all'esterno, non ha ascolto rispettoso, nemmeno è riconosciuta nella natura del suo essere, che guarda caso è essere parte fondamentale del proprio essere e non un che di alieno, che non è compresa nel suo valore, nel suo potenziale, nella sua capacità. E' vista solo come un'appendice minore, una coda, che, come tale, dovrebbe solo scodinzolare a comando. Se non sta nei ranghi ecco il trattamento, perchè si rimetta in riga, perchè non rompa i piani e i propositi abituali. Nell'idea comune sotto il livello del ragionare e dell'esercizio del volere nell'individuo esiste solo un qualcosa che deve assecondare e che per pregiudizio è parte meno affidabile e evoluta da tenere a bada e da vigilare e nel caso da disciplinare e da rieducare. Diventa normale in risposta a esperienze e spinte interiori, particolarmente se non piacevoli e sgradite, opporre principi, valutazioni e giudizi, selezionare ciò che varrebbe e ciò che no, spiegare, interpretare, sostanzialmente non accogliere e non ascoltare, non intendere il contributo interiore, pregiudizialmente considerato solo come parte da tenere sotto controllo e da regolare. Si finisce, senza capire la gravità della sostanza e delle implicazioni di ciò che si sta facendo, per bistrattare ciò di cui si è portatori, per trattare da subalterna e da incapace la parte intima e profonda del proprio essere, la parte in realtà più vigile e dotata di intelligenza che sa vedere cosa si sta facendo di se stessi, che, mobilitando il sentire e con i sogni notturni, vuole contagiare e coinvolgere la parte del proprio essere in cui si è confinati per riportare il pensiero a essere da ottuso ripetitore di schemi e di attribuzioni di significati correnti a pensiero utile e fecondo, a pensiero riflessivo, aderente al vero dell'esperienza, capace di interrogare e riconoscere cosa si sta facendo e come si sta procedendo, se al seguito d'altro e in posizione docile e preoccupata solo di dare buona prova e di riscuotere gradimento e plauso o se viceversa capace di coltivare e di generare il proprio. La parte profonda reclama l'umano, che non è dare prova, ma trovare le proprie ragioni d'esistenza e le proprie risposte, i propri scopi da realizzare per intima persuasione e passione e non per avere in qualche modo successo o per cercare adattamento e quiete nel vedersi e nel dirsi normali. La parte profonda del proprio essere non è la presenza oscura da tenere a bada, non è l'ospite indesiderato cui porre limiti e condizioni, in alcuni casi da estromettere, è semmai il meglio di sè su cui imparare a fare conto e da cui tanto, tantissimo si può ricevere e imparare.