giovedì 18 aprile 2024

Cos'è l'inconscio? Entità impalpabile e misteriosa o presenza viva e vicina?

Accade spesso che l'interiorità non sia compresa in ciò che vuole dire e proporre. L'errore nasce prima di tutto dal rimanere prigionieri della visione comune e prevalente, che afferma che tutto interiormente dovrebbe svolgersi secondo una presunta normalità, il che predispone a trattare come sospette anomalie le esperienze interiori complesse e difficoltate di disagio. Non solo, ma in presenza di una condizione di malessere interiore, succede spessissimo che il malessere sia riferito e principalmente letto come un problema di rapporto con l'esterno, che la ricerca si indirizzi subito in questa direzione. Il malessere interiore in realtà, per quanto metta nella condizione di sentire un legame stentato e critico con l'esterno, con gli altri, forza il coinvolgimento e spinge l'attenzione dell'individuo verso l'interno, verso l'intimo di se stesso, produce una sorta di ripiegamento, di introversione forzata, di caricamento e di polarizzazione di sensazioni e di stati d'animo (ad esempio di paura, smarrimento, apprensione, di scoramento e sfiducia), che collocano comunque dentro se stesso il cuore pulsante della sua esperienza. Cosa vuole questo malessere, cosa dice, cosa intende proporre? Questo è il punto. Lasciare dire alla parte profonda cosa dentro e attraverso il malessere sta sollevando e proponendo, imparare ad ascoltarla e a comprenderla nel sentire che anima e nei sogni, è la scelta da fare, ma già riconoscere che c'è nel proprio intimo una parte profonda capace di dire, di proporre è una novità senza precedenti. Solitamente infatti si tende a circoscriversi nella percezione e nel riconoscimento del proprio essere nella parte conscia, abituata a tenere in pugno tutto, parte che ragiona e che decide, il resto, l'intimo, il sentire, gli svolgimenti interiori, i sogni, sono intesi e trattati come appendice più o meno trascurabile, da cui non ci si aspetta di poter ricevere granché di utile e di sostanziale per capirsi, per orientarsi. Si pretenderebbe viceversa che la componente interiore si accodi e si accordi, giudicando che, dove non si accordi con gli orientamenti e con i propositi razionali, ciò accada per qualche sua bizzarria o, dove acuisca i toni, per un suo anomalo stato. Gli stessi terapeuti in non pochi casi hanno un'idea dell'essere umano che poco si discosta da questa visione comune, al più pensano che l'inconscio, ammesso che ne tengano conto, sia (oltre che origine di pulsioni e di risposte immediate, emotive, che se a volte paiono rivelatrici, spesso invece sono considerate inaffidabili perché "irrazionali") un ricettacolo o serbatoio di ricordi, di esperienze più o meno spiacevoli. C'è un'idea ricorrente per spiegare le origini e le ragioni del malessere attuale, che piace sia a chi vive malessere interiore che a non pochi curanti, che ritiene che la vita interiore possa essere stata turbata e segnata da episodi traumatici del passato, da esperienze e da condizionamenti subiti, sfavorevoli e con effetti distorcenti il normale sviluppo atteso, che di conseguenza l'esperienza interiore attuale ancora ne risenta, ripetendo anche nel presente, come un disco rotto, errori e segni di alterato funzionamento. L'inconscio riproporrebbe come un automa simili distorsioni e resterebbe ancorato a quei precedenti storici. Si ritiene insomma che la vita interiore sia rimasta nel tempo, fino al presente, come congelata, inchiodata a quei passati episodi traumatici e condizionamenti sfavorevoli. E' un teorema, che non appartiene solo a chi soffre interiormente, che gli vale una spiegazione vittimistica del proprio disagio e malessere interiori (la sofferenza attuale come conseguenza di remoti accidenti sfavorevoli subiti e di colpe altrui), ma spesso anche a chi gli si mette a fianco per aiutarlo. Il malessere, considerato senza esitazioni un'espressione di malfunzionamento, di alterazione della normalità, è consegnato subito a cause e a ipotetici condizionamenti esterni, così come a possibili soluzioni esterne, senza intendere che sia espressione di intervento e di presa di posizione, di richiamo e di iniziativa del profondo e che dunque col proprio profondo sia da cercare finalmente un incontro e da coltivare un dialogo. E' così abituale pensarsi solo e unicamente in relazione ad altro e ad altri, che tutta l'attenzione e la ricerca si concentrano in questa direzione, saltando a pie pari, ignorando l'esigenza di un rapporto con se stessi, come necessità prioritaria, come punto saldo, decisivo per cominciare a ritrovarsi. Per comprendere la voce del malessere interiore, il suo richiamo, è necessario non sovrapporgli congetture e spiegazioni circa la sua causa cercandole a destra e a sinistra, in questo o in quello esterni a sé, ma è necessario sintonizzarsi con l'intimo, imparare ad ascoltarlo, scoprirne la voce nel sentire e nei sogni, che tanto sanno dire e far comprendere, che tanto sanno avvicinare a se stessi. Non si è certo dotati di capacità di ascolto e di dialogo col proprio intimo, non se ne conoscono il linguaggio, il modo di comunicare, l'intenzione e la capacità di pensiero che sa animare, la tensione a vedere, a entrare, al di là delle apparenze, nel profondo, a cercare il senso vero, essenziale da far propria, per non continuare a dire senza intendere, a pensare senza comprendere. Prezioso e necessario si renderebbe un aiuto per imparare a trovare rapporto e intesa col proprio intimo. Accade però che oltre all'individuo, abituato a assorbire e a chiudersi nella concezione comune e prevalente dell'esistenza, intesa prima di tutto come legame con altro e con altri e come ricerca rivolta al fuori, gli stessi terapeuti, in non pochi casi, pensino che il centro dell'esistenza dell'individuo sia il rapporto con l'esterno, con gli altri, con quella che volentieri chiamano, come fosse un'entità univoca e assoluta, la "realtà". Puntano subito l'attenzione in quella direzione, per indagare la presenza nell'individuo, portatore di malessere interiore, di insufficienti o errati ( li chiamano disfunzionali) modi di intendere e di affrontare il rapporto con gli altri e con l'esterno, cercano di stimolare, incoraggiare e portare a nuove, ritenute più normali e felici, soluzioni per interpretare e gestire il rapporto con l'esterno, come fosse lì l'essenza dell'individuo e il punto d'origine e il fulcro del suo conoscersi e realizzarsi. Spesso manca completamente, non è acquisizione presente nel pensiero non solo di chi soffre disagio, ma sovente anche di chi se ne prende cura, che esista una parte del proprio essere, quella profonda, non solo influente e decisiva nel muovere e nel plasmare l'esperienza interiore (non sono fattori esterni ma è il profondo a plasmare e a "qualificare" la risposta, anzi la proposta del sentire), ma anche fortemente propositiva e creativa, capace già nelle espressioni della sofferenza interiore, tutt'altro che casuali e disordinate, di sollevare in modo acuto e puntuale questioni decisive e fondamentali riguardanti il proprio modo di procedere, di stare in rapporto (spesso in non rapporto) con se stessi, col proprio intimo. Non si comprende che il malessere interiore, che la crisi è espressione di un intervento del profondo, che vuole risvegliare la presa di coscienza, che vuole interrompere il procedere cieco, un modo di pensarsi e di vedere la propria esperienza, che non vede su quali basi e in che modo si sta impegnando se stessi, la propria vita. Non si comprende che è con se stessi, con la propria interiorità che è in atto un confronto, che è con la propria interiorità, che muove il malessere e gli dà forza e ne dirige i modi e l’andamento, che va trovato un rapporto e va aperto un dialogo, cercato un approfondito chiarimento, una nuova intesa.  Tutto il malessere interiore infatti, visto abitualmente come guasto, vuoi provocato da cattive interferenze e condizionamenti esterni, vuoi legato a un modo scorretto o inadeguato di procedere, non regolare, non secondo normalità, che come tale non procurerebbe benefici e benessere, un procedere che nella sostanza e nei suoi fondamenti e presupposti non è in discussione, è in realtà segno e espressione della presa di posizione della parte profonda dell’essere, che non può e non vuole tacere la propria visione dello stato delle cose, la propria consapevolezza, che vuole “contagiare“ di questa l‘individuo nel suo insieme, nei suoi pensieri, nei suoi umori, nei suoi propositi. Non è una presenza dentro di noi estranea e aliena quella del profondo, l’inconscio siamo noi nel nostro tenere lo sguardo, al di là delle apparenze e senza sviste, su di noi, nel riconoscere il vero della nostra condizione e del nostro modo di procedere, che vede spesso il disaccordo e il mancato incontro tra sentire e pensare, tra esperienza intima e coscienza di noi stessi. L'inconscio siamo noi nel nostro non rinunciare a noi stessi, nel nostro voler essere non copia d’altro, passivi (per inerzia e per comodo, per adesione e soggezione al modo appreso e dominante) nel consumare ciò che c'è, ipotesi, soluzioni e scelte che la cosiddetta realtà offre confezionate e pronte, passivi nel pensare secondo idee e parametri comuni, guidati e regolati più di quanto non si voglia ammettere dall'esterno, dalla conferma esterna dipendenti, ma soggetti, portatori e artefici di un originale pensiero e progetto, certamente non già fruibili e pronti, ma da generare e scoprire, come possibile con la guida del profondo. L'inconscio siamo noi nella volontà di non procedere incuranti di capire, di sapere, di affrontare il vero, pur difficile o doloroso, senza omissioni, equivoci e contraffazioni, concentrandoci sulla nostra esperienza, affidandoci non alle spiegazioni solite e comuni, ma al nostro sguardo, cercando risposte non costruite col ragionamento, ma fondate sul vissuto, sul confronto aperto e sull'ascolto fedele del nostro sentire senza tagli, senza fughe. L'inconscio è la parte di noi che vuole questo impegno e sforzo di ricerca e di costruzione, che non asseconda le illusioni di avere già autonomia e originalità di pensiero, se formati su basi inconsistenti o facendo il verso ad altro da noi stessi che lo ispira e lo sostiene. L’inconscio è la parte di noi stessi che ci vuole instradare e sostenere nella nostra ricerca di consapevolezza vera, senza veli, senza semplificazioni, salda, affidabile e capace. L’inconscio non cerca la normalizzazione, ma la verità e la realizzazione autentica, perché diversamente non c’è vita. L’inconscio è vita. Tutto lo sforzo per cercare di stare nelle guide di un modo di vivere e di intendere la vita dato per scontato, conforme al già concepito e comunemente inteso, modellandosi nella cosiddetta normalità, facendosi bastare e dando credito a soluzioni fragili, a illusorie rappresentazioni di se stessi, tutta la strategia curativa che vuole ricondurre il malessere se non a semplice patologia, a insufficiente o infelice adattamento, che vuole ricucire e che di fatto incoraggia e forza a stare dentro il già dato e conosciuto, urta contro la scelta del profondo, non la considera e non la comprende. Anzi, l’idea che il malessere sia un disturbo, un ostacolo da superare, al più da spiegare come conseguenza di qualche infelice precedente e influenza negativa di un genitore piuttosto che di qualcun altro o di qualcos’altro, è un enorme travisamento e incomprensione delle espressioni della vita interiore, del profondo, delle sue intenzioni. Per il profondo vivere è far vivere se stessi, è formare visione, pensiero propri, base e leva della libertà e della capacità di mettere al mondo la propria idea e realizzazione, di compiere il proprio originale cammino. La posta in gioco è essere adattati, passivi e silenti (non importa se, illusoriamente, convinti di avere personalità spiccata e cose da dire, però senza radice, fondamento e sostegno in se stessi) oppure presenza consapevole e feconda, capace davvero di autonoma visione e di autonomo progetto, questo l’inconscio vuole porre e tenere viva come questione, purtroppo non compresa, spesso misconosciuta, oltre i confini della testa ragionante, del modo di pensare consueto e prevalente. Quando l’inconscio ha occasione di essere ascoltato e rispettato, seriamente valorizzato, fedelmente compreso (sia nel sentire, che anima e che plasma, che nei sogni, dove dà il meglio di sé), come accade in una valida esperienza analitica, il contributo che sa dare di pensiero, di risveglio di umanità, di gioia e di passione di conoscere e di far vivere se stessi, è enorme. 

mercoledì 17 aprile 2024

I sogni formano il pensiero autonomo

I sogni hanno un ruolo fondamentale nella conoscenza di se stessi, sono decisivi nel rovesciare la tendenza a rimanere sulle tracce e sui binari del pensare abituale, dentro una modalità di pensiero che non permette di vedere, che, pur argomentando e ragionando, non consente di capire. E' una forma di pensiero, quella solita affidata all'uso dello strumento razionale, che fa rimanere adesi a modalità e a schemi soliti, senza stacco riflessivo che permetta di capire il senso di ciò che si sta dicendo, di interrogare quale sia il suo scopo vero, di verificare su cosa poggino le proprie affermazioni, se ci sia fondamento valido e compreso ai propri pensieri. I sogni, creature di intelligenza rara e sublime, sanno educare al pensiero riflessivo. Non è affatto immediato entrare in sintonia e in accordo di sguardo e di visione con l'inconscio, con ciò che propone dentro e attraverso i sogni. La tendenza più comune è di leggere il sogno come se fosse uno sguardo sul fuori, su ciò che accade nella relazione con situazioni e soggetti esterni. Se nel sogno compaiono una o più persone si pensa che il sogno parli di loro e di quanto c'è in atto o potrebbe esserci nel rapporto con loro, nei loro confronti e viceversa. In realtà questi altri danno volto e espressione a propri modi di essere e di procedere. L'inconscio vuole aprire proprio lo scenario interno, stimolare e favorire la scoperta e conoscenza di se stessi, di tutto ciò che risalente a sè è stato sinora ignorato, omesso, vista la tendenza a aver cura e attenzione tutte rivolte agli svolgimenti esterni, al rapporto con gli altri e con tutto ciò che sta fuori. Se nel sogno ci sono svolgimenti difficili, inquietanti la prima idea è che l'inconscio voglia mettere l'accento o segnalare l'imminenza o la presenza di condizioni difficili legate a pressioni, a minacce esterne, questo perchè l'atteggiamento di fondo è spesso quello vittimistico e deresponsabilizzante, di ricondurre ad altro e a altri la responsabilità del proprio disagio, delle difficoltà, delle insoddisfazioni, di quanto è vissuto come irrisolto o negativo. L'inconscio fa recuperare tutto ciò che risale a se stessi, indirizza lo sguardo su di sè, rende visibile lo scenario interiore e lì dentro cosa accade nel rapporto con se stessi, nel modo di trattare ciò che vive e che si propone nel proprio intimo, nei propri stati d'animo e vissuti. Nella vita interiore, resa spesso marginale e ampiamente trascurata, quindi ignorata e misconosciuta, resa subalterna a altro, vista la centralità riconosciuta al legame e a quanto agito nel rapporto con l'esterno, trovano riconoscimento vivo i punti focali dell’esperienza, è questo che i sogni vogliono rendere visibile. Lì dentro c'è lo specchio per vedere di se stessi cosa realmente dentro l’esperienza e il proprio procedere si cerca, in che modo, condizionati da quali pretese, indirizzati da quali aspettative, in quale tipo di vincoli. E' abituale ad esempio non vedere quanto nel proprio agire e spendersi risale a esigenze di ben figurare, di dare allo sguardo comune prove di adeguatezza e di capacità, come è abituale non riconoscere il ricorso a quanto già formato e concepito e che finisce per fare da base e da confine a un pensiero che si illude di essere di costruzione propria e capace di portare a nuovi sviluppi di conoscenza. La dipendenza, la mancanza di guida e di elaborazione autonoma passa inosservata, nemmeno è questione. Ciò che interiormente dà stimoli e basi vive per capire in che modo ci si sta muovendo, si sta pensando e ci si sta dirigendo, ciò che nel sentire offre proprio questi spunti e guide per soffermarsi a capire, a capirsi, non è messo al centro del proprio sguardo, tutta la macchina razionale, cui è affidata la propria attività di pensiero e la guida del proprio procedere,  se la racconta senza stare al vincolo stretto col sentire, senza farlo parlare, senza impegnarsi a ascoltarlo, a intenderlo attentamente e fedelmente. I sogni recuperano tutto questo lavorio inutilizzato o travisato dall'attività di pensiero consueta per ridare le coordinate di un pensiero autenticamente riflessivo, che mette al centro l'esigenza di capire i propri modi di essere e di procedere, senza appiattirsi a dare invece contributo al pensato abituale, senza dare implicita conferma e sostegno al tirare avanti dritto sulle solite basi e con la solita inconsapevolezza. Ciò che si muove nell'intimo di emozioni, di stati d'animo, di sensazioni e di spinte ha la stessa matrice dei sogni, non è un susseguirsi di risposte meccaniche, di reazioni banalmente e automaticamente sollecitate e condizionate da questo e da quello che accade fuori, è ben altro, è risposta e iniziativa intelligente, è terreno vivo di presa di visione di se stessi e di quanto ha capacità di condurre a conoscere se stessi. Nei sogni l'inconscio perfeziona lo sguardo, crea le basi per prendere la migliore visione possibile di se stessi e di quanto sta accadendo nel proprio modo di condursi, di condurre la propria vita. La componente intima è resa finalmente riconoscibile, ampliando la percezione dei confini del proprio essere, rompendo lo schema abituale, che vede il proprio essere a una sola dimensione del pensare e dell’agire razionale e volitivo. Se in un sogno si creano situazioni difficili o inquietanti, se si viene alle prese con figure che appaiono minacciose, con pericoli anche estremi, non è per ribadire o per segnalare che si è sotto pressione di minacce esterne, casomai invece per rendere riconoscibile che è dentro se stessi che si aprono tensioni, che è da dentro se stessi che si fanno avanti pressioni e pretese diverse rispetto alla prassi abituale, che ignora qualsiasi relazione con l'intimo e il profondo del proprio essere. La parte profonda non sta ferma e zitta, si fa avanti e vuole introdurre qualcosa di nuovo, di radicalmente diverso, non per fare danno o sconquassare malamente, ma semmai per sollecitare mutamenti e trasformazioni, prima di tutto di sguardo e di pensiero, valide e necessarie, per rompere tendenze che chiudono e impediscono di aprire gli occhi, di conquistare nuova consapevolezza, che liberi nuova vita, nuove e ben diverse prospettive. Se, per fare un esempio, in un sogno compaiono ladri, che minacciano di derubare cose proprie o in casa propria o che lo fanno, può questo dire delle iniziative di una parte intima e profonda di se stessi, niente affatto altra da se stessi, che vuole togliere false credenze e possesso di idee e convinzioni che non hanno attendibilità e che chiudono piuttosto che garantire la propria crescita e realizzazione umana personale.  Ciò di cui parlano i sogni non è sulla lunghezza d'onda del pensato abituale, ma è un pensiero, quello cui danno forma, che sa entrare nel cuore della verità, che sa animare e rianimare un individuo troppo adagiato su una visione di se stesso inautentica e niente affatto favorevole ai suoi interessi di crescita vera. I sogni non sono di immediata comprensione, non parlano il linguaggio abituale, non puntano lo sguardo e l'attenzione nella stessa direzione dello sguardo convenzionale e consueto, i sogni parlano di se stessi e aprono a una visione della vita centrata su di sé, non a rimorchio di altro che fa da modello e guida, non confinata in abitudini e interessi soliti. I sogni accendono una visione, guidano alla formazione di un pensiero autonomo fondato su esperienza e ricerca proprie, che, se compreso e condiviso dall'individuo, sa renderlo libero e capace di concepire a modo proprio il senso e lo scopo della sua vita, di riconoscere, apprezzare e utilizzare le sue autentiche e complete risorse umane.

domenica 14 aprile 2024

Il rapporto col sentire: luoghi comuni, manipolazioni e trucchi sottili

Per capire se stessi è decisivo il rapporto con le emozioni e con tutto ciò che si muove interiormente. Se si vuole prendere contatto col vero, se si vuole conoscere se stessi e ciò che, al di là delle apparenze, accade nella propria esperienza, è necessario rendersi capaci di rapporto aperto e dialogico col proprio sentire, imparando a ascoltarlo in ciò che dice. E' tendenza frequente porre in secondo piano e sotto tutela ciò che l'esperienza interiore propone, dando prevalenza e consegnando funzione guida al pensiero razionale, riconoscendogli il compito e il diritto di  giudicare l'opportunità e di stabilire la congruità del sentire. In non poche circostanze, credendo nella superiorità e nella affidabilità dello sguardo razionale, si ritiene utile, anzi necessaria, come condizione per capire le cose al meglio, la messa in disparte delle emozioni, viste come fattore perturbante la visione lucida e obiettiva. Viceversa capita che in alcune circostanze si invochi la messa in pausa del ragionamento e dell'istanza di capire per liberare le emozioni, per quel "lasciarsi andare" liberatorio e libero da intralci, che colori e permei al meglio e piacevolmente la propria esperienza, convinti che ci sia solo da vivere le emozioni e non da capirle. Si conferma la tendenza a tenere separati il sentire e il pensare, come fossero antagonisti e inconciliabili, come dovessero operare in campi separati. Se da un lato la preoccupazione di salvaguardare il sentire dall'intervento del capire è comprensibile, considerato il carattere non dialogante, l'atteggiamento di fondo non rispettoso verso il sentire, l'attitudine a porre regole e condizioni e a stabilire dall'alto ragioni e spiegazioni, in sostanza la mancanza di capacità d'ascolto e riflessiva del modo usuale di esercitare il pensiero nella forma razionale, dall'altra, ritenere in assoluto inopportuno l'intervento del pensiero nel rapporto col sentire, significa fraintendere il potenziale e lo scopo del sentire. Il sentire evidenzia e detta i contenuti su cui portare l'attenzione, apre in modo sensibile la strada alla conoscenza, il sentire non disdegna affatto di essere compreso, di veder raccolto fedelmente e attentamente ciò che vuole dire, suggerire, evidenziare, anzi negargli ascolto e impegno di comprensione significa vanificarne la proposta e l'intenzione. La questione fondamentale è la forma di pensiero messa a disposizione e rivolta al proprio sentire. Al sentire, alle emozioni, agli stati d'animo, ai moti interiori, non va riservato un pensiero che si senta in diritto di commentarlo, di giudicarlo, in chiave negativa o positiva poco cambia, è sempre un pregiudizio, come abitualmente fa il pensiero razionale, con la sua pretesa di far valere la sua intelligenza sopra emozioni e vissuti, di fatto applicando loro le sue categorie e i suoi codici di significato già pronti, senza dare loro voce, senza raccoglierne il messaggio. Al proprio sentire va viceversa garantito un pensiero autenticamente riflessivo, capace di riconoscerne l'intimo volto, come quando, guardando la propria immagine riflessa dallo specchio, si può vedere nei propri occhi e nel proprio volto ciò che svelano, che comunicano. Le emozioni, i moti interiori, ciò che prende forma nel sentire va saputo cogliere e riconoscere nelle sue specificità e sfumature, perchè diversamente si spreca questa risorsa interiore, il suo potenziale propositivo. Facciamo un esempio per capire meglio. Un moto di invidia rivolto a qualcuno può essere facilmente trattato da chi lo vive o come un segno ovvio di desiderio di avere per sè ciò che l'altro possiede o manifesta come qualità, ovvio perchè pare possedere il meglio, o come espressione di sè disdicevole e sconveniente, perchè l'invidia ha caratteri in sè poco piacevoli, disagevoli, un pò amari, ma anche facilmente considerati da idea e etica comune indegni e riprovevoli. Ebbene quel moto si è pronunciato non per caso per dare l'occasione di prendere visione di qualcosa di importante, di cruciale di se stessi su cui portare l'attenzione. Ciò che mostra di sè, lo dicono proprio le particolarità e le sfumature del sentire, è un senso di insufficienza, di inadeguatezza, di mancanza di un proprio su cui contare e di cui sentirsi soddisfatti. A dirlo quella sottile pena disagio, imbarazzo riservato a sè che accompagna il moto di invidia. Dunque lo sguardo su se stessi comincia a rivelare che ci si sente carenti e che dalla propria non c'è qualcosa che si consideri davvero valido, qualcosa che si sia generato e che si senta e riconosca davvero caro a se stessi e valido ai propri occhi. Se scatta il paragone e se da altri ci si fa dire cosa vale e andrebbe perseguito ecco rendersi visibile attraverso quel sentire che si è al traino, che altro da sè ha già deciso cosa vale e cosa va perseguito per concedere stima a se stessi e per raggiungere un senso di capacità, di riuscita. Il proprio sentire disegna lo stato delle cose e crea il terreno di ricerca su cui riflettere, dove lo sguardo, l'attenzione sono portati e centrati su di sè, un terreno estremamente preciso, attendibile, capace di portare alla verità di se stessi, capace di permettere ricerca utile per non rimanere schiacciati nell'inconsapevolezza e costretti negli automatismi del pensiero e delle scelte. Il sentire è intelligente e intelligentemente delinea, evidenzia ciò che serve per entrare in rapporto più approfondito con se stessi, per lavorare su questioni vere e toccanti. Ma torniamo a riflettere su quanta corrispondenza e rispetto sono concessi al proprio sentire. Circa la libera espressione del sentire, va osservato che, a dispetto della loro presunta genuinità e spontaneità, sulle emozioni e sulle spinte interiori cala non di rado da parte di chi le vive una presa sottile, che le vuole comunque pilotare, in qualche modo selezionare e riplasmare. Sul conto delle emozioni, del sentire, si tende infatti non poche volte, anche se in modo non appariscente, a svolgere un controllo e una regia che vuole che si esprimano e si declinino accontentando canoni di normalità, di buona resa e di buon gradimento: commuoversi, stupirsi, piangere, gioire e entusiasmarsi, come fosse positiva o dovuta quella particolare espressione, "normale" in determinate circostanze e condizioni, come fosse sinonimo di sana sensibilità e vitalità, come se in caso contrario ci fosse sospetto di freddezza, di mancanza di sensibilità, di qualcosa che non va. Per alcuni può anche vigere regola diversa, ritenendo espressione di debolezza provare turbamento, paura, inquietudine, come se forza d'animo e maturità consistessero nel rimanere saldi e sicuri. Non è raro comunque che ci si ponga, in subalternità a regole condivise, il dubbio circa la propria idoneità, circa se stessi, quando non risulti a se stessi naturale e spontaneo provare ciò che culturalmente è ritenuto ovvio, valido e normale. Fare delle proprie emozioni, del proprio sentire il mezzo per risultare adeguati e ben accetti, per ben figurare e in modo più esplicito farne l'arma per sedurre, per stupire favorevolmente, non è cosa così rara. Il sentire autentico, che sinceramente, senza filtri, correzioni e manipolazioni, possiamo riconoscere dentro di noi, in realtà è autonomo rispetto a ogni pressione, non rispetta nessun convenevole, non si subordina a nessuna azione regolatrice, a nessuna disciplina e pretesa, è imprevedibile, mai scontato, mai docile alle attese. Il nostro sentire vero, non oscurato, non filtrato e non rifatto a nostro e altrui uso e piacimento, è la voce del nostro profondo, che, incurante delle convenienze, sfuggendo a qualsiasi tentativo di addomesticamento, con precisione e con intelligenza vuole a ogni passo guidarci a entrare nelle pieghe della verità che ci riguarda. Il sentire non è una bella decorazione, un fiore da portare all'occhiello e neppure è risposta  automatica a questo stimolo o a quello. Il nostro sentire è funzione intelligente, è traccia e guida per entrare in rapporto con la verità di noi stessi, il sentire spontaneo e naturale è ogni volta spunto intelligente, spunto, evidenziatore, scintilla di conoscenza. C'è chi, più spiccata questa convinzione nel sesso femminile, ritiene di avere apertura naturale e più spiccata confidenza con le emozioni, col sentire, coi sentimenti e con tutto ciò che non è nel governo di volontà e ragione. Se è vero che l'uomo è spesso più lontano della donna dalla vita intima e più avvezzo all'azione e al pensare razionale che viaggia disinvolto in alta quota ben staccato dal suolo degli svolgimenti interiori, non è detto che quest'ultima abbia davvero capacità di rispettosa apertura e rapporto con la vita interiore, col sentire. La presunta e apparente apertura e vicinanza al sentire, se esposta a uno sguardo più attento può infatti lasciar vedere che su emozioni e sentimenti può esercitarsi, come dicevo, niente affatto raramente, una sottile manipolazione. Senza che si renda visibile smaccatamente l'artefatto, pur senza teatralità o più scoperta ambiguità o ipocrisia dei sentimenti, si può in una forma più lieve e sottile caricare, enfatizzare, si può fare selezione, filtro sul sentire, dando riconoscimento all'interno delle proprie sensazioni e stati d'animo, a ciò che più è gradito e piace, rendendo così l'accesso e il rapporto col proprio sentire più controllato e conveniente, assai meno aperto, fedele e spontaneo di quanto non appaia e non si voglia credere e far credere. C'è poi l'istanza, di cui già dicevo, che vuole, per il proprio sentire o presunto tale, per ciò che muove le proprie scelte e espressioni, libertà da interrogativi stringenti, da necessità di verifica attenta, che chiede di non insistere con le domande di chiarimento, invocando quella leggerezza, che oggi nel pensato e nel linguaggio comune gode di buon credito. In questi casi il significato dichiarato, che spesso si rifà al più in uso e condiviso, è considerato sufficiente per la conoscenza di sé e della propria esperienza, anzi esaustivo. Succede allora che espressioni esaltanti come innamoramento, passione, attrazione o altre, meno esaltanti, come avversione, disagio, dolore, siano trattate come affermazioni che non necessitano di chiarimento ulteriore e di approfondimento rispetto a ciò che pare già implicito e scontato,  perché considerate in sé sufficienti per dire il bello e il brutto, per colorire e qualificare il significato e il valore, la bontà o il negativo di un'esperienza. Quante volte, per fare un esempio, per chi vive il cosiddetto innamoramento, questo è, senza dubbi e esitazioni,  sinonimo di un trasporto e di un forte sentimento amoroso verso l'altro, non curandosi di mettere in luce che quel cosiddetto innamoramento può essere espressione e collante di un legame dipendente (con reciprocità interdipendente), dove l'altro è mezzo e occasione per portare a sé, prontamente, qualcosa, il sostituto di qualcosa di essenziale e necessario non ancora cercato dentro se stessi, non ancora coltivato, generato e fatto vivere da sé, quante volte  pare via di completamento (trovare la propria cosiddetta metà) e di realizzazione, quando invece è rinuncia a cercare vera completezza di individuo e vera auto realizzazione, quante volte è illusoria rinascita e risalita di autostima, perché l'altro o l'altra riempie di attenzioni e sembra porre se stessi al centro del suo interesse! Vedere chiaro cosa ci si spinge a cercare e a fare proprio, riconoscere dentro le proprie spinte i significati veri, aprendo confronto attento e trasparente con se stessi, è scelta frequentemente omessa e evitata, perché, assumendo per vero il significato apparente, perché affidandosi alla retorica dei sentimenti, tutto sembra girare al meglio e favorevolmente, salvo nel tempo, come nell'esempio di prima,  patire, non di rado, la stretta del legame dipendente e ritrovarsi a corto di autonomia e di crescita personale vera, salvo giungere, in non pochi casi, a disillusioni cocenti. La retorica, rivestire di qualità e di significati che piacciono e che fanno comodo, ricorrendo e andando dietro a modi di intendere di largo uso e ben considerati, è nel rapporto col proprio sentire un espediente che torna assai gradito, in apparenza vantaggioso. La manipolazione del sentire e l'utilizzo sul suo conto di attribuzioni di significato e di valore più comuni e imperanti, offre vantaggi di immagine, copre responsabilità, aiuta a trovare scorciatoie, a darsi un'identità che piace, persuade e trova facile consenso negli altri, appoggio, complicità. Se trucca le carte, lo fa in modo così sottile da passare inosservato. Non del tutto però, perché la parte profonda di se stessi non si fa né incantare, né persuadere dalle apparenze, perché di tutto ciò che si muove sullo scenario dell'esperienza sa riconoscere  e vuole far risaltare il senso vero. E' tutt'altro che infrequente cadere nella trappola del sentire che si pretende genuino, delle spiegazioni e delle rappresentazioni sul suo conto che vorrebbero essere appropriate e consone, in realtà sovrapposte, arrangiate, a proprio uso e beneficio, per diletto, per convenienza, per quieto vivere. Per fortuna l'inconscio è presenza vigile e può, se gli si dà ascolto nel sentire autentico e nei sogni, aiutare a districare, a svelare i trucchi, a trovare il vero, per non farsi irretire da ciò che, pur piacendo e dando immediato agio, pur trovando appoggio e conferma in altri e nel comune modo di pensare, non dà occasione di conoscere se stessi e di crescere.

sabato 13 aprile 2024

A quale porta bussare?

Non è infrequente che, se coinvolti in esperienze interiori di malessere e sofferenza interiore, si cerchi negli altri, che siano vicini come amici, conoscenti o parenti o cercati in rete come dentro forum e spulciando in lungo e in largo opinioni, chi possa aiutare a capire e soprattutto a trattare ciò che si sta vivendo. C’è poi la tendenza a cercare sollievo nella constatazione che anche altri sperimenti o abbia sperimentato qualcosa di simile e a questi, alle loro opinioni si presta più ascolto e credito. Sembra di trarre utilità da questi apporti esterni, disarmati come si è nel mettersi autonomamente in rapporto con quanto si vive, inclini come si è prima di tutto a difendersi e a contrastare ciò che si sta provando. Va perciò aperta una riflessione su quanto possa offrire e riservare a sé cercare fuori opinioni e apporti. Raccogliere le opinioni di altri rischia di non essere una gran soluzione, perché ognuno nel trattare l’esperienza personale che gli si espone ci mette del suo di preconcetti, di modi, che gli sono abituali, di trattare la propria esperienza, tipo delegare subito la comprensione dei propri stati d'animo, questioni scottanti e esperienze alle valutazioni e teorie dell’esperto di turno o, già prima di ascoltare e di provare a capirsi, avere cura e premura anche da sé di appiccicare etichette diagnostiche alle proprie e altrui esperienze , tanto arbitrarie quando si avvicina un'esperienza interiore, complessa e unica, quanto sterili. Etichettare non significa conoscere. Se oggi si è entrati in una spirale dell'allarme per le proprie condizioni di salute, se mille dubbi si aprono sul proprio reale stato, in tutto questo un senso e uno scopo c'è di certo. E' importante saperlo cercare e riconoscere. Per far questo è necessario imparare a non ridursi a agire e a metter sopra l'esperienza ragionamenti che non hanno guida e fondamento in ciò che si sta provando, è importante smetterla di affannarsi nel fare e nel cercare soluzioni e cominciare invece a esercitare uno sguardo diverso volto a riconoscere il senso di ciò che si sta vivendo. Se sinora ci si è ignorati, se nel proprio procedere solito si è cercato tutto fuori di sè, diventando estranei o semplici ospiti abitudinari e disattenti in casa propria, per casa intendo il proprio spazio intimo, se di se stessi più profondamente non si è frequentato e conosciuto nulla, se non si è riflettuto, guardandosi come dentro uno specchio, ignorando il vero stato della propria vita, del modo di condurla, se da una parte si fa, si agisce, si confezionano ragionamenti e dall'altra si sente e non ci si cura di entrare in sintonia e di ascoltare e comprendere ciò che si sente, se si tira avanti in una modalità di vita senza apertura e confronto con se stessi, non è forse vero, non risalta che, seppur nella forma dell'allarme e del temere le più disparate incognite e sorprese sul proprio stato, qualcosa sta costringendo a occuparsi di sè, che sta segnalando con forza e con insistenza la propria lontananza da se stessi, la propria mancanza di attenzione per la conoscenza, non superficiale e distratta, ma vera e approfondita, di se stessi, di cura del rapporto con se stessi? Nulla sulla scena interiore accade mai per caso e senza un senso, senza uno scopo. La porta a cui bussare è dunque quella altrui, che non può dare se non apporti comunque impropri e fuorvianti, offrire consolazioni che aumentano la diffidenza e la distanza da ciò che si vive nel proprio intimo o la propria porta, imparando, casomai con l'aiuto di chi sappia dare contributo utile a questo scopo, a entrare in relazione aperta e capace di ascoltare la propria interiorità in ciò, che anche nella forma, che può risultare difficile e sofferta, sta cercando di dire?

venerdì 12 aprile 2024

Il circuito della seduzione

La seduzione è il motore e è il vincolo su cui si avvita l'esistenza che ha preso forma e ha svolgimento dentro il legame di dipendenza da fonte e da guida esterne, un'esistenza e un modo di procedere in cui tutto è stato preso a modello e continua a essere preso e appreso da fuori. Non c'è vincolo allora  più potente e decisivo, per stare dentro questa forma di esistenza, di quello di dare traduzione alla propria vita che onori e rispecchi quanto preso da fuori. Il vincolo fondamentale nel segno della seduzione, del portare a sè convalida e plauso a condizione di compiacere, è di dare prova e dimostrazione di adeguatezza e di possesso di attributi di valore ben codificati e ampiamente condivisi per ricevere conferma e sostegno di considerazione e di approvazione e nello stesso tempo ribadire e dare assenso e prova di fedeltà a ciò che da fuori può fornire quei sostegni e benefici. E' un circuito chiuso di compiacenza che costringe l'esistenza a declinarsi e a muoversi su questo binario, che non offre altra possibilità, a meno che dall'adesione cieca e supportata da illusorie attribuzioni di significato, che vogliono travestire di espressione di volontà, di intelligenza e di capacità proprie ciò che invece è espressione e conseguenza di docile passività nel seguire e interpretare un copione già scritto, non si passi alla riflessione per vedere cosa c'è in realtà in gioco nel proprio modo di procedere, cosa lo muove e cosa implica davvero per se stessi. E' questa la spinta che arriva dal profondo. L'inconscio infatti è pronto a mettere in luce cosa si sta facendo di se stessi, dentro quali vincoli e a che prezzo si sta impegnando se stessi in quella forma d'esistenza, in quel modo di procedere. L'inconscio è difesa delle proprie ragioni autonome d'esistenza, del proprio potenziale che in quella modalità di procedere rimane incolto, non riconosciuto e dunque sacrificato. L'inconscio è portatore e stimolo all'intelligenza vera, che è volontà e sviluppo di capacità di cercare e di leggere il vero, per non rimanere intrappolati nella nebulosa della falsa coscienza, dell'ingenuo stare al passo con l'illusione. Rendersi compiacenti, assecondare le attese di buona resa, per averne in cambio la  gratificazione di essere ben considerati, prestarsi a questo e continuare a rendere omaggio a criteri guida e di valore che sono fedelmente onorati e serviti, questo circuito chiuso della seduzione comporta bilancio zero di scoperta autonoma e di costruzione di qualcosa di originale, compreso da sè, ben coltivato nella ricerca e nel dialogo con se stessi, bilancio zero di gioia autentica di scoperta con i propri occhi del vero e corrispondente a sè, di gioia di farlo vivere e crescere con passione. Questo non lascia indifferente l'inconscio, la parte profonda di se stessi, che non per caso smuove le acque interiormente, provoca crisi, alimenta malessere per toccare questi punti, questi nodi della propria esistenza. Il bilancio zero di costruzione crescita vera non lascia indifferente la parte che non accetta simile esito, che prima di tutto lo vuole segnalare, rendere riconoscibile. Bilancio zero perchè il presunto patrimonio realizzato, le presunte mete raggiunte altro non sono che prove date e ben inscritte nell'ideale e nella logica comune e data, di cui sono debitrici le presunte conquiste, che, senza quel supporto e quelle convalide da fuori, svanirebbero, non starebbero su. L'inconscio è l'unica parte viva di se stessi che non sta al gioco, che viceversa lo vuole smontare pezzo su pezzo, che vuole coinvolgere per intero l'individuo in questa ricerca del vero, guidandolo attraverso i vissuti e con i sogni, a prendere visione passo dopo passo, dei veri fondamenti del modo di procedere in cui si è coinvolto e di quanto ci sia di implicato di perdente per sè anche dove c'è apparente riuscita. La seduzione non è a misura e degno dell'essere, dell'individuo, che abbia desiderio e volontà di condurre avanti delle scelte di vita non per averne il contentino di essere apprezzato, ma per credo proprio e per passione sincera, avendo cura non di dare dimostrazione, ma di creare, di dare vita, di far di tutto per far esistere ciò che da sè abbia saputo trarre.

mercoledì 10 aprile 2024

E' possibile cambiare?

Si è quello che si è e nella sostanza è difficile cambiare o c'è possibilità di cambiare veramente e profondamente? Portiamo dentro di noi le possibilità del cambiamento, anzi di un cambiamento radicale nel nostro modo di essere e di pensare, portiamo nel nostro profondo tutta la volontà oltre che la capacità di alimentarlo, di condurci a produrlo. Il problema è che molto spesso non c'è intesa e convergenza tra il volere del profondo, la strada che propone e la mentalità e le pretese della parte conscia. Quest'ultima si illude che i cambiamenti siano ottenibili con l'inventiva del ragionamento, assumendo e professando nuovi credi, abbracciando nuovi principi di valore e di comportamento, oppure consegnando l’attesa del cambiamento a cambi di situazioni, prendendo da fuori, utilizzando il corredo di risorse esterne già pronte e confezionate, mutando abitudini e luoghi, frequentazioni o partners, come se da lì possa sgorgare nuova vita. La proposta interiore, che traduce la volontà del profondo di coinvolgere l'individuo e di condurlo al cambiamento vero, è viceversa del tutto ignorata e incompresa nel suo significato e valore. La vicenda interiore, ciò che l'interiorità propone nel sentire, nei vissuti, che in avvio di processo di cambiamento e proprio allo scopo di aprirlo assume frequentemente carattere di crisi, di esperienze interiori, di vissuti che possono risultare disagevoli e sofferti, non è riconosciuta dall'individuo che la vive come forte richiamo e come primo segnale valido di avvicinamento a se stesso e spinta al cambiamento vero, anzi è guardata con preoccupazione, con timore e diffidenza. Sembra ai suoi occhi minacciosa e avversa ai suoi interessi e con i suoi parametri di giudizio, presi da senso comune, prontamente la parte conscia dell'individuo giudica la proposta interiore, ciò che interiormente si fa così acutamente vivo dentro di lui nel sentire, un che di inaffidabile, volto più a fargli danno, a togliergli potenzialità, a debilitarlo e a invalidarlo che a dargli opportunità. Come credere da parte di chi è abituato alla regola del presto sistemato e soddisfatto, di chi ha come faro ciò che per i più è valido e desiderabile, che ad esempio ansia, senso di fragilità, caduta di interesse e di fiducia in se stessi, possano racchiudere delle opportunità, possano valere come terreno di presa di coscienza e come primo passo sulla via del cambiamento? Tutto lo sforzo della parte conscia è di tenere da subito alto il tono dell'umore, la sicurezza, convinta di alimentare così lo "star bene", la capacità di non perdere terreno, di non privare se stessi di ciò che pare normale e naturale possedere. Se tutto del proprio modo di pensare e di concepire la vita si è formato andando a rimorchio, seguendo l'educazione del così fan tutti, facendosi dire e spiegare, facendosi bastare nei propri ragionamenti di ripetere nella sostanza la lezioncina appresa, pur con qualche pretesa di originalità, badando solo a stare al passo con gli altri, la reazione a ciò che interiormente in realtà, se fedelmente e ben compreso, segnala con forza non i sintomi di una poco valida capacità di procedere e di essere adeguati, bensì la mancanza di aderenza a se stessi, l'assenza di radice nel proprio procedere e pensare, la sostanziale mancanza di visione propria e di autonoma guida e capacità di condursi, è di giudicare tutto questo che si muove interiormente come guasto e pericolosa deriva, come disturbo da combattere, come patologia da aggiustare. Ciò che interiormente, in modo assolutamente sensato e intelligente, coinvolge e investe senza tregua con i vissuti d'ansia di un senso di  fragilità, di precarietà, di apprensione e di smarrimento, di allarme e di pericolo, chi procede incautamente senza aderenza e intesa profonda con se stesso, ciò che interiormente avvilisce e disarma con i vissuti di scoramento e di mancanza di fiducia e di stima di se stesso, chi, al di là delle apparenze (che possono convincere l'opinione comune, ma non la parte profonda se stessi), non si è provvisto dell'essenziale, di un bagaglio di conquiste proprie e di autonome scoperte, è tutt'altro che l'espressione di un disturbo e il segno di un guasto, di un anomalo modo di sentire. La proposta interiore, anche se difficile e dolorosa, contro ogni facile pregiudizio che la considera nociva e malata, segno evidente di cedimento, è viceversa guida provvida e intelligente per prendere contatto col vero, con se stessi. Se ci si lavora con cura e seriamente, se ci si fa aiutare a farlo, come accade dentro un percorso di analisi ben fatta, lo si scopre, lo si verifica, lo si comprende. L'iniziativa interiore, pungolando nel vivo, non concedendo tregua, persegue uno scopo assolutamente positivo, vuole spingere a vedere senza trucchi e senza veli il significato e il fondamento del proprio modo abituale di procedere e di pensare, spesso sostenuti e confermati più da fuori che da dentro se stessi, a riconoscere lo stato del rapporto con se stessi, spesso segnato da lontananza e da estraneità al proprio mondo interiore, per muovere da lì alla costruzione di qualcosa di autentico, allo sviluppo di un pensiero e alla scoperta di una progettualità che abbiano origine e radice dentro se stessi. L'incomprensione del senso, del significato di ciò che interiormente si svolge e preme, non è casuale, è conseguenza della mancata formazione e crescita della capacità di relazione col dentro, visto che tutto l'impegno nel proprio corso di vita fino al presente è stato destinato a prendere da fuori, a istruirsi, a interagire con l'esterno e con gli altri, a prendere da lì le opportunità, a apprendere dalla fonte esterna contenuti, guide e capacità di orientamento. L'esperienza interiore, il rapporto con sensazioni, emozioni, stati d'animo non è stato oggetto di cura, non ha preso forma, non è stata coltivata e sviluppata la capacità di ascolto e di dialogo con la propria interiorità, anzi via via si è creata lontananza, distanza e distrazione, disaffezione verso il dentro, sminuito, visto solo come eco banale e piatto delle vicende esterne e come un seguito che doveva armonizzarsi e seguire docilmente le petizioni di principio e i calcoli e le attese della parte conscia razionale, chiamata a essere il motore trainante, la guida. Partendo da queste premesse, rimasta incolta la parte che riguarda il rapporto con se stessi, col proprio intimo, capaci solo di forte connessione col fuori e scollegati e estranei alle vicende interiori, sottovalutate e messe semmai sotto tutela della parte conscia, ecco l'incapacità di intendere cosa la proposta interiore vuole e sa offrire. Il cambiamento di cui proprio la parte profonda può essere promotrice e guida capace e che ha nel profondo di ognuno, nell'inconscio il suo promotore, non è certo considerato possibile dalla parte conscia, non è nell'ordine delle sue idee e aspettative, che la rendono più incline e pronta a bloccarne l'avvio e lo sviluppo, invalidando come anomalo e da correggere ciò che la proposta interiore avanza, che di riconoscerlo come guida valida su cui fare conto. L'inerzia e la chiusura della parte conscia, la sua incapacità di intendere le vicende interiori e di comprenderne il valore, la sua ottusa salvaguardia del solito a cui affida tutta se stessa, il suo dirsi persuasa di avere e di sapere già, il suo dar credito solo alle risorse esterne e già pronte, il suo affezionarsi solo alle conquiste spendibili per dare buona prova di sè agli altri, per riscuoterne l'apprezzamento, finisce per stroncare e far cadere i richiami interiori, la proposta e l'opportunità del cambiamento vero mosso dall'intimo, dal profondo. E’ dato invece credito a ipotesi ingenue e sterili di cambiamento fondate sul niente, su soluzioni esterne e mal concepite, che non possono che riportare sempre all'uguale. Non si cambia per procura, affidando il cambiamento di sé a altro, non si cambia con un cambio di abitudini e di pratiche esterne, non si cambia per petizioni di principio. L'unica possibilità di cambiamento è legata al profondo di sè, che non intende certo offrire un cambio d'abito. Cambiare significa seguire la traccia viva segnata dalla propria interiorità, facendo un lavoro di presa di coscienza, di verifica senza risparmio, lucida e onesta, imparando a coltivare con la guida del profondo scoperte e idee fondate. La parte profonda di se stessi, l'inconscio ha talento e capacità di indirizzare la ricerca, di guidare il processo vivo di trasformazione mettendo in campo il sentire e tutta la trama dei vissuti, che vogliono far fare esperienza viva per conoscere nell'intimo la verità delle cose, mettendo a disposizione i sogni, insostituibili fari per vedere dentro se stessi, per formare nuova visione, non artefatta ma aderente, strettamente aderente al vero. Se i cambiamenti fatti di invenzioni e di acrobazie della mente conscia e razionale, affidati a cambi di ingredienti esterni sono solo ingenui diversivi e illusori, cambiare veramente si può. Si può, cambiando profondamente se stessi, diventando se stessi, assecondando la spinta profonda a aprire gli occhi, a generare il proprio pensiero, a trovare le proprie risposte e la propria visione della vita, a comprendere le proprie ragioni d'esistenza. Il cambiamento vero e radicale non è un frutto già maturo e pronto da cogliere e da consumare come si è abituati a fare, è un cambiamento da coltivare, è una trasformazione graduale da condividere col proprio profondo, è una nuova vita da generare e da cui essere rigenerati.

sabato 6 aprile 2024

L'analisi: chi conduce chi?

Premetto che si impiega il termine analisi per definire una varietà disparata di approcci e di esperienze assai diverse tra loro. Nel mio scritto parlo dell’analisi e del percorso analitico, come da tanti anni da analista propongo e pratico, che mette al centro il rapporto col profondo, che riconosce a questa parte del proprio essere un ruolo essenziale e decisivo nella conoscenza di se stessi e nel promuovere la propria autentica realizzazione. E’ motivo di sorpresa per chi inizia questo percorso analitico ritrovarsi non già nella posizione di chi col ragionamento cerca di condurre il discorso, di dirigere l’attenzione verso ciò che considera importante e centrale per capire se stesso, ma nella posizione di chi è guidato nel percorso di conoscenza da una parte di se stesso, parte intima e profonda, fino ad allora trattata e pensata più come oggetto di indagine che come soggetto di discorso. Compiere questa inversione è fondamentale e apre uno scenario totalmente nuovo. Chi arriva in analisi è convinto di poter definire già il campo di ricerca, i punti cruciali, le questioni che lo riguardano. L’aspettativa è di indagare più attentamente e in profondità, preferibilmente nel passato remoto, per arrivare a mettere in luce i fattori condizionanti e le presunte cause, fatte risalire a responsabilità di altri preferibilmente, del proprio malessere. L’idea, se presente, circa l’inconscio è che possa attraverso l'analisi rendere finalmente riconoscibili episodi critici e verità della propria biografia nascoste, rimosse e tenute dentro questa sorta di contenitore, di strato profondo della psiche, perché troppo dolorose o inammissibili alla coscienza, che dove finalmente emerse e riportate alla consapevolezza segnerebbero una svolta, la liberazione da blocchi e da trappole interiori limitanti e distorcenti il proprio sviluppo e benessere. Sottesa all'impiego di questa teorizzazione, al favore per questa rappresentazione dell'inconscio, la posizione vittimistica, la tesi, del tutto conservativa e deresponsabilizzante verso se stessi che dice: se non ci fossero state condizioni avverse e sfavorevoli, se non avessi subito questo o quell'altro per traumi o accidenti, per negligenze o per negativa opera e influenza d'altri e d'altro, non mi sarebbe toccato di patire sino a oggi disagi, di rimanere invischiato nel malessere e tutto di me e del mio procedere (che non è in discussione) sarebbe filato liscio e con garanzie per il mio benessere e la mia libertà di espressione. L’inconscio, chiamato dentro una simile tesi a dare sostegno coerente a questa posizione vittimistica verso se stessi, in realtà è ben altro e di ben altro è portatore e capace. Nel percorso analitico di cui parlo lo si può nitidamente vedere, toccare con mano e apprezzare. L’inconscio è prima di tutto laboratorio e genesi di pensiero, non spiantato e aggregato al pensato comune, ma riflessivo e capace di vedere nell’esperienza i significati veri, il senso. L’inconscio è la risorsa interiore di cui si dispone e del cui valore e potenziale si è in genere ignari, in grado di indirizzare in modo del tutto nuovo e inatteso la conoscenza di se stessi, portandola fuori dal labirinto dei soliti convincimenti e ragionamenti, per condurla sul terreno fecondo della scoperta del vero. Se gli si dà spazio e parola l’inconscio sa dire e orientare la ricerca con sapienza incomparabile. Lo fa magistralmente con i sogni. Esercita inoltre la sua funzione guida regolando tutto il corso del sentire, della vicenda interiore. Nulla di ciò che viviamo interiormente è casuale, è accidentale, dettato e condizionato, in una meccanica relazione di causa e effetto, da eventi e da stimoli esterni e basta. In ciò che proviamo, in ciò che prende forma nel sentire c’è sempre un intento e una capacità di segnalare, di dire.  Se si porta attento sguardo sul sentire, si può vedere ciò che il vissuto, lo stato d’animo, l’emozione scrive e descrive, delinea, sa portare a riconoscere, toccandolo con mano, sensibilmente. Fare intima esperienza, sentire è il modo più efficace di conoscere, se una cosa la si vive la si può comprendere. A far la differenza quando, con l'intento di capirsi, ci si mette in rapporto col sentire è la capacità di osservazione, di tenere a freno il commento e la spiegazione, per arrivare viceversa e gradualmente, proprio con la guida del sentire, alla scoperta, alla comprensione. L’inconscio modula il sentire, lo plasma, lo indirizza offrendo così basi e terreno vivo e efficace di scoperta di verità, compensando le insufficienze, spesso le distorsioni del pensiero e dello sguardo cosciente, non raramente parziale e astratto, incline alla ripetizione e al preconcetto, catturato dalla superficie degli accadimenti, in difficoltà nella messa a fuoco dei significati più intimi e profondi dell'esperienza. L'inconscio, spingendo avanti le emozioni, il sentire, che se ascoltato sa rendere visibili le implicazioni più vere dell'esperienza, sa aprire nuove trame e sviluppi di conoscenza, corregge i fraintendimenti, spesso di comodo, funzionali a dare a se stessi rassicurazione e conferma nelle proprie convinzioni e tesi, messi in campo dalla parte razionale, che pure si illude di essere molto affidabile, in contrapposizione con la presunta cecità e irrazionalità delle emozioni, nel chiarire le cose, nel garantire obiettività. L'inconscio non solo interviene nel sentire, nella regolazione di tutto il succedersi degli eventi interiori, delle emozioni, degli stati d'animo, delle pulsioni, per dare base e terreno sicuro di ricerca e di scoperta del vero, ma offre per la conoscenza di se stessi un contributo eccellente nei sogni, dove esalta la sua funzione guida. Lì mostra capacità mirabile di condurre a vedere dentro se stessi, lì trova espressione tutta la sua autonomia, maturità e profondità di sguardo e di pensiero. L’inconscio non è appiattito sulle cose, sulla visione preconcetta, è autonomo da vincoli, dalle aspettative della parte razionale, non è intrappolato dentro i circuiti di pensiero soliti e automatici. L’inconscio ha saputo e sa compiere lo stacco riflessivo, vedere ciò che è coinvolto nella nostra esperienza e nel nostro procedere, i modi, i perché, ciò che ci spinge, anche in ciò che tentiamo di eclissare o camuffare. L’inconscio non è interessato a risolvere, a far procedere le cose senza intoppi, a far venir a capo in fretta di eventuali difficoltà pur di procurarsi beneficio immediato, vuole la visione nitida di quel che c’è in gioco, il senso, vuole che non ci nascondiamo a noi stessi. C’è nell’inconscio una tempra e una forza di iniziativa che possono davvero sorprendere chi non lo conosce, chi non si conosce in questa parte profonda di se stesso. Posso dire che l’inconscio, che da tanti anni ascolto in svariate vicende interiori e percorsi analitici, mostra una sorta di proprietà e di tratto che ricorre, pur nella diversità dei cammini, sempre unici da individuo a individuo. L’inconscio non accetta la fatalità del diventare passivi, dell’andar dietro, del modellarsi secondo altro, dell’insistere nella simbiosi con l’esterno come unica idea di vita. Si parla infatti spesso di realtà, di senso di realtà, riconoscendo come tale solo ciò che è esterno, concreto, già concepito, in qualche modo già sistemato, ordinato, fruibile, percorribile e dato. Reale è però qualsiasi movimento di presa di coscienza, di nuova conoscenza che partorisca qualcosa di nuovo, che faccia vivere qualcosa di inatteso. Siamo realtà noi stessi, se non ci mortifichiamo nella ripetizione d’altro, siamo realtà in ciò che possiamo generare nella presa di coscienza, far vivere dentro di noi e che da lì possiamo progettare, sviluppare. L’inconscio, che è la nostra stessa matrice, ciò che siamo e che abbiamo potenziale di comprendere, di tradurre, di percorrere, di far vivere, di mettere al mondo, non compie la rinuncia, non accetta un’esistenza che non tenga conto di questa capacità di pensiero originale e di questa tensione creativa propria, un'esistenza che si riduca a fare il verso ad altro già detto, concepito e organizzato, a venerarlo come la Realtà cui aderire e su cui plasmarsi. Tanto malessere interiore che in varie forme scuote, disturba il quieto vivere di non pochi, nasce da questa tensione profonda a non rinunciare mai a guardare dentro se stessi, a non dare nulla per ovvio, a non rinunciare a riconoscersi come soggetti, come artefici della propria vita. L’inconscio non dà comunque ricette pronte e ingenue di cambiamento. L’inconscio non induce a compiere salti, non asseconda affatto la tendenza ad aggirare la difficoltà, l'interrogativo, a semplificare o a omettere. Il processo conoscitivo deve essere completo, maturo, responsabile, davvero capace di aprire gli occhi, di non ignorare, di trovare risposte valide e complete, per non fare illusori passi avanti o semplici fughe. L’inconscio non promuove cambiamenti fragili e contradditori, ambigui o insostenibili, nulli nella sostanza. L’inconscio è maestro e, sogno dopo sogno, svolge un’analisi completa, guida in un percorso conoscitivo originalissimo e nello stesso tempo di straordinaria lucidità, veridicità e profondità. Nulla, come l’inconscio nei sogni, sa essere altrettanto libero da ripetitività e da preconcetto, nulla sa coniugare in pari modo acume di sguardo, libertà e forza. L’inconscio esalta la vita, perchè esalta il pensiero, che sa cercare e riconoscere l'intimo significato vero, senza posa. L’inconscio è infaticabile e non cessa mai di dare spinta alla conoscenza, alla conoscenza che fa ritrovare il senso, che avvicina a se stessi, che rende capaci di incontro col respiro e con la complessità ricca della vita. Non ho mai incontrato tanta indomabile voglia di aprire e di conoscere come nell’inconscio. L’inconscio non fa sconti, non culla illusioni e autoinganni, la verità è sempre al centro delle sue cure, la verifica attenta passo dopo passo, combinata a eccezionale lungimiranza. Chi si affida al proprio inconscio ha la più affidabile delle guide e il miglior maestro per conoscersi, per conoscere, per arricchirsi. Una fonte interna, propria e straordinaria. Ignorarlo, vuoi per ignoranza del suo potenziale, vuoi per diffidenza, senza avere l’occasione di conoscerlo come può accadere in una buona esperienza analitica, è davvero una occasione persa, l’occasione di arricchirsi di sé. Nel percorso analitico tutto, proprio tutto si scopre e si genera a partire dalla proposta e dall’iniziativa della parte profonda di se stessi. Qual'è il compito dell'analista? L’analista svolge bene la sua funzione quando, consapevole di cosa può offrire all'altro aprendolo al rapporto col suo profondo, lo sa accompagnare nella ricerca, incoraggiando e favorendo in lui il formarsi e la crescita della capacità di ascolto e di dialogo con la sua interiorità, mettendo al centro sempre la proposta che viene dall’inconscio, cui prima di tutto spetta parola e guida. E’ una funzione delicata quella svolta dall’analista, vista l’importanza della posta in gioco, che è far sì che l’altro si congiunga alla sua interiorità e ne rispetti la proposta, ne comprenda e ne traduca fedelmente gli intenti, senza favorire invece costruzioni di pensiero e travisamenti utili solo a riportare tutto nel giro abituale dei convincimenti soliti e opachi al vero, nella presa della pratica dipendente, della adesione e rincorsa cioè di ciò che è dato comunemente per scontato, nell’imbuto del dare prova in cambio del sostegno esterno e del premio di considerazione e approvazione degli altri. Il lavoro dell’analista, se ben svolto nel rispetto e a garanzia dell’altro, non si avvale del ricorso a spiegazioni e a interpretazioni già pronte, facili da usare, ma improprie e fuorvianti. Per l'analista c’è un lavoro artigianale da fare, che certamente richiede non poco impegno di tempo e di energie e che nello stesso tempo ripaga di scoperte uniche e feconde, un lavoro consono a una ricerca che rispetti e rispecchi l’originale della proposta interiore di ognuno, che sappia accompagnare l’altro a stabilire un rapporto sempre più aperto e intimo, un ascolto e un dialogo sempre più sintono con la sua parte profonda. L’inconscio traccia, guida con mano ferma e capace, il percorso di scoperta e di trasformazione, che conduce l’individuo a diventare se stesso, non una immagine da mostrare, non una copia d’altro. L’analista ha il compito, passo dopo passo, di dare all’altro spunti di ricerca consoni a ciò che il suo profondo intende proporgli sia nei sogni che nei vissuti, coinvolgendo l’altro nella ricerca, facendo sì che via via se ne renda sempre più partecipe attivo e capace.  Coltivare con cura con la guida del proprio inconscio e portare a maturazione, lungo un percorso unico, la scoperta della verità di se stesso, diverrà per l’individuo il fondamento della sua personale autonomia, della capacità e della passione di mettere al mondo e di far vivere il proprio, originale e autentico.

giovedì 4 aprile 2024

Il rapporto con se stessi

Se parlare di rapporto con gli altri risulta realtà immediatamente riconoscibile e comprensibile, parlare di rapporto con se stessi appare ai più cosa sfuggente, di scarsa visibilità e consistenza. Eppure è quotidiano l'intervento che ognuno fa su e verso se stesso, ascoltando o meno ciò che prova, offrendo a se stesso guida più o meno consapevole dei perché delle sue scelte e risposte. Contemporaneamente, guardando dall'altro lato del rapporto, è ben tangibile l'influenza che la parte intima di se stessi esercita in ogni momento, mettendo in campo emozioni, spinte, stati d'animo e non solo, se consideriamo che la notte, quando tutto fuori tace, quando la componente conscia recede, lì accade il meglio e il più vistoso dell'iniziativa che l'inconscio prende rivolta al resto del proprio essere, che in quel momento può solo lasciarsi prendere e condurre, come accade nei sogni. Dunque il rapporto con se stessi non è cosa astratta e impalpabile, è realtà viva. E’ una costante in svolgimento attimo dopo attimo, ben riconoscibile e consistente. Semmai è il rapporto con gli altri a essere comunque sporadico e discontinuo. E' quest'ultimo però che ha riconoscimento e cui sono rivolte le più assidue attenzioni e preoccupazioni come se fosse il centro e il luogo decisivo dell’esistenza. Del rapporto con se stessi, di come si svolge, di quel che racchiude poco o nulla ci si occupa e preoccupa. Nei frangenti critici, come accade in presenza di disagi interiori, di pieghe non facili e inattese che prende il proprio sentire, la risposta è spesso sorda e ruvida, sbrigativa e intollerante, facendo prevalere la voglia di disfarsi della difficoltà e del momento critico su quella di ascoltarsi, di confrontarsi con pazienza e con attenzione con se stessi, con la propria interiorità. In queste circostanze ciò che la propria interiorità rende acuto è visto più come intralcio, come cattivo funzionamento da superare e possibilmente spazzare via, come accidente da temere e combattere che come momento vivo di incontro con la parte intima di se stessi. Nessuna fiducia che ciò che si sta provando possa dire qualcosa di importante, di centrale, che sappia e che voglia comunicare, nessuna idea di rapporto, di possibile dialogo con la propria interiorità. D’altra parte si è così abituati a procedere tenendo in posizione marginale e subalterna tutto ciò che di se stessi esula da ragionamenti e da iniziative della parte che funge da testa che conduce, che è comprensibile che la risposta a ciò che interiormente si è reso più difficile sia di cacciare via e mettere a tacere come una molestia o come un preoccupante cattivo stato ciò che si sente, che si è convinti possa solo recare a se stessi danno. Dunque il rapporto con se stessi prende spesso una forma, ha un suo svolgimento, a ben vedere, tutt'altro che esaltante e però non pare questione rilevante, non la si riconosce come tale, perciò non diventa tema di attenzione e di riflessione. Non solo non è una priorità, ma non è motivo degno di attenzione, ancora meno di preoccupazione e di cura. Quel che conta è non perdere il legame con la cosiddetta realtà, che è sempre cosa che sta là fuori. Più importante e di interesse vitale è occuparsi del rapporto con gli altri, visto appunto come teatro principale della propria esistenza, luogo dove si addensano le personali attese, gli entusiasmi, anche se fugaci, oltre che le recriminazioni, le pene e i tormenti. E' del rapporto con gli altri, con altro che sta fuori che ci si ostina a occupare e a discutere, è lì che si riconduce tanto o tutto di se stessi, come se la propria vita e la propria personale cifra fossero lì raccolte e messe in gioco. Addirittura c'è un'etica, non da pochi condivisa e propugnata, che biasima il dare peso, il rivolgere interesse al proprio stato e l'occuparsi troppo di se stessi, il tutto giudicato come segno di egoismo e di egocentrismo, di rimuginazioni sterili e di ripiegamenti insani, per esaltare viceversa il valore morale e ideale del dare interesse e attenzione agli altri. Si ignora che ciò che si rivolge all'altro è della stessa pasta e qualità di ciò che si rivolge a se stessi, che ciò che si fa verso l'altro è né più né meno ciò che si è abituati a fare verso se stessi. Se si è incuranti di ascoltare e incapaci di intendere cosa il proprio sentire dice, se gli si mette sopra, spacciandosele per riflessione e chiarimento, spiegazioni costruite razionalmente, spesso di comodo, che, dando peso e centralità a condizioni e a condizionamenti  esterni e a responsabilità altrui, chiudono lo sguardo su se stessi, anziché aprirlo, come si potrà essere capaci con l'altro di ascoltarlo e di incoraggiarlo a ascoltarsi e a riconoscere con trasparenza e fedelmente ciò che il suo sentire vuole fargli sensibilmente riconoscere e capire di se stesso? Se si è ostili a ciò che interiormente risulta doloroso, se si è in fuga e pronti a cercare ogni mezzo per evadere, per aggirare o per dissolvere il proprio sentire spiacevole, sostenuti dall'idea che stare bene significhi (affermato come un principio di salute e rivendicato come un diritto) non portare pesi interiori e non patire tensioni, come si potrà dare all'altro, se a sua volta proporrà disagi e esperienze interiori difficili, risposta diversa dal cercare di sostenerlo nello sforzo e nella petizione di trarsi presto fuori e al riparo dal suo sentire disagevole e sofferto, di cui si considera vittima e che vive come ostile? Nel dialogo con l'altro, come si è abituati a fare con se stessi, sarà fatale assecondare e dare manforte alla tendenza dell'altro a costruire spiegazioni del suo malessere, in apparenza logiche e coerenti, che, puntando lo sguardo più all'esterno che all'interno, spiantate e senza accordo con ciò che il suo sentire vorrebbe fargli comprendere, lo aiuteranno soltanto a procurarsi temporanee rassicurazioni e conferme di ciò che è solito e che gli è gradito credere, non certo a avvicinarsi a se stesso e a prendere coscienza del vero. Quel che si fa con l'altro è né più né meno quello che si fa con se stessi, non si cambia magicamente, non ci si può inventare in presenza dell'altro qualcosa di diverso da ciò che si è prodotto nel confronto vivo con se stessi, con la propria esperienza. Dedicarsi a se stessi, lavorare su se stessi, portare a maturazione un rapporto aperto e dialogico con la propria interiorità, è prioritario e decisivo, muta la qualità delle proprie risposte possibili a se stessi e di conseguenza anche all'altro, ben contro e diversamente dall'ingenuo credo di chi, non pochi, sostiene che occuparsi di se stessi sia angusto e sterile e che viceversa occuparsi di altri o del prossimo liberi chissà quali migliori sentimenti e orizzonti di pensiero e ideali.

lunedì 1 aprile 2024

La dissociazione

Il termine dissociazione è abitualmente riservato a stati psicologici considerati anomali, patologici, ben difficilmente si è disposti a applicarlo per descrivere la condizione base e la costante del modo di procedere e di stare al mondo considerato normale e sano. In realtà la dissociazione è espressione tutt'altro che impropria per descrivere la condizione cosiddetta normale, in cui il rapporto con la parte intima e profonda, per mancanza di incontro e di vicinanza, di capacità di ascolto, di dialogo e di intesa con la propria interiorità, con ciò che si sente, che vive dentro se stessi, è di sostanziale disunione. Un vero stato di disunione e discordanza tra parte conscia e intimo profondo. Mica è poco, perché, senza un simile legame e intesa, senza trarre da lì, dalla connessione col proprio intimo e dall'ascolto di ciò che si muove in se stessi, dal proprio sentire, guida e ispirazione, nutrimento e sostanza per capire, per capirsi, si è solo affidati all'iniziativa isolata della propria testa che, dissociata dal sentire, impiega i ragionamenti per capire e che, priva di guida interiore, altrove cerca e trova indirizzo e che da altro che sta fuori nel pensato e nei modelli comuni prende ispirazione e suggerimenti, guida e sostanza di pensiero. Conseguenza di questa dissociazione dal proprio intimo e profondo? Non conoscere nulla di vero e di fondato di sè, non scoprire traendolo da se stessi e comprendendolo davvero e su basi di sguardo e di verifica propri cosa è importante per sé e perché, non avere prima comprensione dei propri modi di procedere abituali e poi e via via del significato autentico e delle ragioni della propria vita, non avere su queste basi la capacità di condursi autonomamente e di governarsi. La conseguenza è ritrovarsi di fatto al traino di ciò che da fuori definisce ciò che vale e che si può o deve perseguire e dimostrare, di cui si deve dare prova. Poco importa che si cerchi di sfuggire all'omologazione e al conformismo nei modi di pensare e di agire, in mancanza di una visione sincera e autentica di se stessi e del proprio modo di procedere, ogni tentativo di differenziarsi e di dire la propria rischia di ancorarsi a nuova ideologia, di trarre forza solo dal contrasto e dall'opposizione, dunque in appoggio e trovando sponda in ciò che è largamente già concepito. Le cause e le soluzioni per la propria emancipazione e per il desiderio di dire la propria finiscono per essere più cercate all'esterno che dentro, il terreno di lavoro è già dislocato fuori e non dentro. Se il profondo interviene con decisione sul piano intimo, se insiste nel tenere se stessi sulla corda e nel vincolare al proprio malessere è per fare intendere che è di se stessi che ci si deve occupare e prendere cura, che l'attenzione ad altro non è la priorità, che allo stato attuale si è davvero in cattivo stato finché non si arrivi a formare solida base propria, superando la dissociazione che rende monchi di una parte vitale e fondamentale di se stessi con cui invece si ha necessità di costruire un rapporto. Questo rapporto, questa ricomposizione dell'unità con se stessi è imprescindibile e  essenziale per diventare individui consapevoli, per avere una visione propria della propria vita e di se stessi, per non essere solo individui a norma e copia di altro, cioè normali, semplicemente adeguati e al passo con ciò che si sostiene essere giusto e valido comunemente, per non darsi illusione di essere liberi solo per assunzione di un credo diverso, solo per assunzione di idee, il più spesso di ideologie, contro. In presenza di segnali intimi di tensione e di malessere però o tutto viene ricondotto a cause e a pressioni esterne o liquidato come una propria anomalia da correggere, da curare, nel verso del provare a metterla a tacere e raddrizzare. Squalificare come espressione di insufficienza e di  inadeguatezza, se non addirittura di patologia, ciò che interiormente dà l'allarme e invita a provvedere a apprestarsi a profondi quanto utili cambiamenti, a conquiste di consapevolezza fondamentali e non rinviabili, è un'ingenuità assai poco favorevole ai propri interessi, è l'espressione di un pensiero dissociato, anche se ben sostenuto e convalidato da esempio e mentalità comune, da apporti di cosiddetta scienza medica o psicologica, come attendibile e giusto. L'individuo affidato al governo della parte pensante razionale, dissociato dal legame col proprio intimo, pretende, persuaso di perseguire il proprio bene, di agire sull'intimo imponendogli la sua logica, ben indirizzata e corroborata da fuori, dalla mentalità e dalla pratica comuni e da tutto il pensato e organizzato circostante. Su queste basi chi è alle prese con segnali di crisi e di malessere interiore invoca e persegue come scopo valido il ripristino dello stato solito, ricacciando nell'anomalo ciò che interiormente vuole invece spronarlo e condurlo a salvarsi, a lavorare efficacemente su di sé per prendere davvero in mano la propria sorte. Solo lavorando su se stessi e in unità col proprio profondo è possibile avere visione veritiera di sé, vedere ciò che risale a sé nel portare avanti modi di essere e di procedere tutti in appoggio e in dipendenza da altro. Solo in stretta unione e ascolto della propria interiorità è possibile portare a maturazione la visione propria autonoma e ben compresa e verificata di ciò che è importante e che si ha potenzialità di far vivere, di realizzare. Solo la parte profonda di se stessi ha capacità di essere la propria fonte ispiratrice e guida di pensiero nuovo e vitale, fondato e autonomo, senza il quale non si può che infilarsi nelle corsie del pensato comune, pur con tutte le apparenti alternative. Solo in unità con il proprio profondo è possibile rompere il legame di dipendenza da ciò che fuori fa sì da supporto, ma anche da limite e da incastro della propria realizzazione umana.


mercoledì 20 marzo 2024

Simbiosi con altro e fuga da se stessi

 Rimetto in primo piano un mio scritto di qualche tempo fa, in cui affronto una questione che considero fondamentale.

Il legame con tutto ciò che, esterno a sè, si presenta come un insieme strutturato e organizzato (la cosiddetta realtà), fruibile come supporto e veicolo d'esperienza, capace di offrire soluzione pronta per ogni necessità, di indicare modelli, percorsi, tappe da seguire per dare risposta a ogni esigenza di soddisfazione e di espressione personale, di crescita e di autorealizzazione, è questione da tenere ben presente per capire la problematica del rapporto con se stessi, con tutto ciò che si propone nell'esperienza interiore. Ho più volte sottolineato nei miei scritti la pericolosità e l’insensatezza di opporre rifiuto preconcetto e di squalificare come insano e deleterio tutto ciò che da dentro se stessi, dal proprio profondo, si impone come disagio interiore. Il rifiuto è ripudio di una parte capace, creativa e intelligente di sè, la squalifica è bocciatura della propria interiorità, che nel sentire, pur doloroso e tormentato, in realtà dice, suggerisce, vuol far comprendere qualcosa di centrale e di decisivo di se stessi, vuole aprire e promuovere processi trasformativi e di crescita importanti, necessari e favorevoli. Ebbene, a spingere fortemente verso una simile intolleranza e fuga dal proprio sentire disagevole e sofferto, con un atteggiamento e con un modo di pensare che sentenzia, dandolo per scontato ed evidente, che si tratterebbe solo di disturbo, se non di malattia, che menoma e danneggia, è proprio il legame di dipendenza dall’esterno, da un insieme vissuto come fonte vitale, capace, in apparenza, di dare risposta pronta a tutto, di offrire essenza, contenuto e senso del vivere. Guai a perdere contatto e legame stretto con l‘esterno, a sentirsi in qualche misura tagliati fuori, ostacolati nel mantenere scambio e presenza nell’insieme dato, guai a limitare o compromettere il contatto con altri individui ritenuti decisivi e fondamentali, guai ad allentare il legame con la realtà esterna! Pare e è temuta come una drammatica perdita di sé. Se da dentro se stessi la propria interiorità col malessere esercita una presa, questa è vissuta prima di tutto come un preoccupante ostacolo, come l'impedimento all’abbraccio col fuori, dove pare ci sia tutto. La presa forte dell’intimo che coinvolge e che trattiene,  certamente non è l'espressione di un pericoloso cedimento, di un guasto o di  una malattia, ma di una decisa e incalzante sollecitazione del profondo all'avvicinamento e al dialogo con se stessi, perchè si esca dalla condizione di passiva adesione a modalità e a scelte di vita non comprese davvero, perchè prima di tutto le si guardi nell'intimo, per avviare scoperta e formazione di idea propria e autonoma attorno alla propria vita ( può rendersi indispensabile un aiuto per formare e per sviluppare questa capacità di rapporto con l'intima esperienza). Viceversa la presa interna di sensazioni difficili e impegnative appare subito come una disgrazia, come un pericoloso motivo di ritardo rispetto alla corsa comune, come il rischio di deriva e di caduta nell’abisso del niente. Simile visione del rapporto con la propria interiorità e dell’intimo legame con se stessi, se da un lato è conseguenza di abituale lontananza da sè e di non familiarità col dialogo interiore, di mancanza di fiducia nel rapporto con la propria interiorità e di ignoranza del significato dell'esperienza profonda, dall'altro è certamente alimentata, esasperata dall’angoscia di perdere la continuità del contatto e dello scambio con ciò che, esterno a sè, da troppo tempo è vissuto come il riferimento fondamentale, come l’habitat naturale, come l'alimento vitale unico e insostituibile. Il vincolo a se stessi, reso obbligato e stringente dal malessere interiore, è vissuto come rischio di uscita dal reale, come pericoloso fattore di isolamento e di privazione, quasi di sradicamento, senza speranza e senza promessa. E’ decisamente un paradosso. Andare verso se stessi è in realtà il primo, necessario movimento vitale, per congiungersi a sé, per trovare la propria "terra", per ritrovare fondamento e radici, per cominciare davvero a vedere con i propri occhi, a comprendere per intimo sentire, per orientarsi. Ben sostenuti da un profondo che dà e che dice, come mirabilmente il proprio inconscio sa fare con i sogni, oltre che col sentire (serve però un aiuto per comprendere e scoprire tutto questo), in questo incontro con la propria interiorità si potrebbe finalmente riconoscere se stessi, non per ciò che è riconoscibile dagli altri, non per ciò che può rendere adeguati o validi ai loro occhi, ma per ciò che si è davvero, per ciò che si prova, per ciò da cui si è mossi e che vive dentro sè. Andare verso se stessi significherebbe cominciare a ritrovarsi, uscendo dalla condizione di sconosciuti a se stessi, spesso impegnati  in un movimento ritenuto tanto normale quanto nella sostanza sterile e insensato, paghi solo di non esser da meno d’altri o fuori dai circuiti comuni d'esperienza. L'incontro con se stessi potrebbe avviare un percorso di presa di coscienza e di sviluppo di pensiero, che da semplici consumatori di una vita già pensata e fruibile nelle forme date, potrebbe rendere protagonisti e artefici di comprensione propria dei significati, di scoperta di ciò che per sè vale e del suo perchè, di progetto autonomo. Tutto va però formato e sviluppato, cosa che nella modalità solita di procedere, dove tutto è immediatamente fruibile e traducibile, è una sorta di novità incomprensibile, se non di anomalia. Per andar dietro, per sintonizzarsi col senso comune e con idee già in uso, per farsi condurre, confermare e dare convalide esterne, ci vuol solo spirito adattivo e gregario, non importa se in apparenza, camuffato da illusorio possesso di spirito critico e di autonomia, spesso solo di facciata e inconsistenti. Per formare visione e conoscenza proprie, per dare forma sentita, coerente con se stessi, alla propria vita, per generare il proprio, per farlo crescere, con soddisfazione nuova e profonda, serve ben altro, è necessario un lavoro, una ricerca personale, prima di tutto è necessario convergere verso se stessi, imparare ad ascoltarsi, a cercare nell'intimo del proprio sentire le guide per capirsi, per capire. Capita invece, succede frequentemente, che anzichè riconoscere nell'esperienza della stretta interiore, del malessere vivo, la possibilità e la necessità non rinviabile di incontro con se stessi, il richiamo a una verifica approfondita, anzichè proporsi come priorità l'ascolto e la comprensione di sè, si respinga  fermamente, si squalifichi disinvoltamente (prendendo per oro colato l'equazione: doloroso= sfavorevole e dannoso) ogni pungolo e richiamo che venga dall'interno, perchè difficile e sofferto, perchè discordante dalle attese e scomodo, a prendere contatto con se stessi, a iniziare a interrogarsi nel vivo, a ritrovarsi davvero. Ben connessi con l'esterno e disconnessi da sè, in fuga, pur senza ammetterlo, da ogni tentativo di veder chiaro e puntuale, di capire davvero cosa si sta facendo, paghi di definizioni e di perché convenzionali, di spiegazioni arrangiate, anzi, in non pochi casi, con la clausola, benedetta da mentalità corrente, che saper vivere significa saper stare a mezz'aria (spensieratezza, leggerezza, non dar peso…), alla fin fine ci si adatta alla passività dell'andar dietro, alla provvisorietà, all’indecifrabilità del proprio essere, incuranti di sapere, compiaciuti di rinviare, di tener lontana la verifica, di sopire la preoccupazione di trovare il filo vero ed unitario del proprio procedere e fare. In questo modo di procedere ciò che conta non è prendere davvero in mano la propria vita, che richiede fermarsi per entrare in contatto, in ascolto e in sintonia con la propria interiorità, sia per vedere nitidamente, con coraggio e sincerità, il vero della propria condizione attuale, sia per comprendere della propria vita il significato e lo scopo autentico come profondamente concepito, desiderato, voluto. Tutto questo è fuori dal proprio sguardo e dalle proprie mire, perchè sembra bastare ciò che si conosce o che ci si illude di conoscere di se stessi e del significato della propria esperienza, perchè ciò che conta e urge è non perdere contatto con altro, è non intralciare l'andar avanti tra una cosa e l'altra, legati a questo o a quello, è non incontrare ostacolo o ritardo nell'inseguimento di una cosa o dell'altra, su cui esercitare o mantenere la presa. Nella condizione di simbiosi con altro da sè, in cui, scontatamente, quasi automaticamente, ci si fa dare da altro un che di essenziale (e fatalmente ci si lega a questo altro, consegnandogli il proprio apporto vitale di tempo, di energie e di dedizione, per confermarlo e per tenerlo in vita), non si sa e non si vuol vedere con chiarezza cosa sta accadendo, ci si persuade che tutto è normale, facendo conto su esempio e credo comune, su comune andazzo. Tutto è normale e l'interiorità che stacca, che col malessere complica, che vorrebbe far vedere chiaro, è giudicata subito l'anomalia da mettere a tacere. La simbiosi con altro da sè, sia che questo altro sia cosa, mentalità, abitudine o persona, una o più, elette a riferimento o a ragione di vita, è continuamente confermata come condizione di vita irrinunciabile e sana, con tutta la consacrazione fatta dal pensiero comune, che per esempio incoraggia e premia l'attaccamento alla "realtà", che stigmatizza ogni movimento di ripiegamento, di avvicinamento a sè, a meno che non sia fugace e finalizzato al pronto rientro nell'insieme.  Non da meno la simbiosi è sostenuta e prontamente rinvigorita dall’apparato di sostegno delle stesse cure di non pochi curanti, che non smentiscono certo l’idea che prima di tutto bisogna scacciare la crisi interiore, staccare dal dentro, per rinsaldare i legami col fuori. L’invito a spensierarsi, a dar peso e valore esclusivo a quel che c’è, ai legami con altri e con altro, a rinsaldarli, a renderli motivanti o rimotivanti per riprendersi, a leggere il malessere interiore solo in dipendenza e in funzione d'altro, l’aggiunta di droghe (psicofarmaci) per metter ordine, per tentare di zittire l’ansia e ogni altro fastidioso sentire, per ripristinare l’ordinato "sano" procedere libero da richiami interiori, sono il contributo curativo all’andar via da sé. Sono la riconferma della fatalità, dell'ovvietà della simbiosi con l’esterno, con altro, che già scontatamente darebbe volto, contenuto e definizione alla propria vita, senza necessità di capire nulla, senza possibilità di cambiare nulla, di scoprire e di generare nulla di diverso, di aprire nuove strade, originali e conformi a se stessi.

 

Il controllo

Il controllo è la forma più frequente di rapporto con tutto ciò che si vive e di cui si fa esperienza interiormente. Da un lato c'è la consegna alla parte conscia del compito di dirigere le operazioni di pensiero e decisionali, di indirizzo nelle scelte, di spinta e di  tenuta volitiva nelle decisioni prese, dall'altro le espressioni della vita interiore, dalle emozioni, agli stati d'animo, dalle pulsioni a tutto ciò che, esercitando presa e coinvolgimento, interviene nell'esperienza, è considerato materia da regolare e da tenere sotto controllo. I significati dei vissuti, di quanto si propone intimamente, sono spesso prontamente dedotti e, fatti rientrare nell'orizzonte del pensiero abituale, sono dati in qualche modo per già acquisiti, soprattutto vagliati sul grado di coerenza con ciò che si è abituati a ritenere valido e accettabile. L'interferenza, il mancato accordo e sostegno di stati d'animo e di moti interiori, che non garantiscono la stabilità dei propositi e la continuità del percorso che si sta e che si vuole seguire, induce a mettere in opera subito la forza di interdizione del ragionamento e la pronta mobilitazione di ogni energia possibile a difesa di quelli che sono considerati i propri legittimi e validi interessi. La preoccupazione circa l'incoerenza o le minacce di intralciare gli intenti e i convincimenti razionali esercitate da ciò che si sente o che, in adesioni a spinte interne, ha prodotto conseguenze sul comportamento, che paiono affatto favorevoli e promettenti, alimenta la necessità di tenere a bada, di riportare sotto controllo simili spinte e moti interiori. Se intervengono ad esempio impaccio, timore, ansietà o l'umore, anziché sereno e fiducioso, si oscura, questi svolgimenti interiori, imprevisti e indesiderati, diventano presto bersaglio di una critica che pretende altro. Talora c'è il tentativo di spiegare, di trovare una causa, fermo restando che tutto dovrebbe svolgersi diversamente rispetto agli esiti giudicati infausti che quegli eventi interni stanno minacciando di provocare. Dunque anche l'approccio che pare più aperto, volto a capire, parte sempre dal presupposto e dalla pretesa che tutto debba svolgersi nel modo voluto e programmato, mai messo in discussione e fatto oggetto di attenta verifica, indisponibili dunque a ascoltare e a recepire ciò che il sentire che si è messo in mezzo o di traverso nell'esperienza vuole e sa dire. Questi interventi del sentire e dell'intimo, tutt'altro che sciagurati o espressione di un che di insano e di difettoso, sono viceversa un valido e tempestivo contributo per aprire una attenta presa di visione riflessiva su ciò che si sta facendo e perseguendo, sono uno stimolo, sono una mossa decisa dal profondo, per dare primato all'esigenza di capire ciò che si svolge nell'esperienza, di capirsi. Sull'aver da dire in relazione a altri, a cui può frapporsi impaccio e mancata fluida parola, prevale per esempio l'istanza di capire cosa e perchè dire, vincolati a quale esigenza e per produrre che cosa. Sull'ottenere buona prova prevale nelle intenzioni del profondo, che anima tutte le spinte e gli interventi del sentire, l'istanza di capire a che scopo si vogliono ottenere i risultati voluti, per rispondere a quale bisogno o aspirazione, dentro quali vincoli. La parte profonda non è cieca, l'inconscio vuole alimentare  la presa di coscienza e non la riuscita ad ogni costo. La presa di coscienza vale, è essenziale per costruire il fondamento di una visione che permetta capacità di orientarsi, di trovare in accordo con se stessi la comprensione del vero, di collocare nelle proprie mani la capacità di scegliere e di dirigersi, di autogoverno maturo e saldo. Pare sfavorevole la mancata riuscita dei propositi abituali, la mancata  prestazione, ma ciò che più vale, che il profondo fa valere con i suoi interventi nel sentire, è l'esigenza di non procedere ciecamente a testa bassa, di capire, di porre le basi per riconsegnare a se stessi il compito e la facoltà di comprendere, di vedere da sè con i propri occhi cosa è importante e valido e perchè e per perseguire scopi da sè riconosciuti come significativi e appassionanti. Fare di sè, come spesso accade, uno strumento per ben figurare e per servire le attese o presunte attese altrui di buona prova, per riceverne plauso, conferma e apprezzamento è una cosa, è una scelta dipendente e succube, riservare a se stessi invece la facoltà di riscoprire il significato e il valore della conoscenza in accordo e in unità con se stessi, con tutta la libertà e la soddisfazione, seguendo propri originali percorsi, di scoprire e di comprendere significati e valori per intima esperienza, anzichè desumere significati e farseli dire da altro e riprodurli da bravi scolaretti, è tutt'altra storia. L'interiorità  non ha e non asseconda spirito gregario, ma lavora per coinvolgere nella ricerca e nella scoperta del vero. Se delude le aspettative è per capacità e per forza d'animo, che possiede, di promuovere consapevolezza, fonte di crescita e leva di conquista di autonomia. Grande è la miopia e il fraintendimento di ritenere che interiormente tutto debba filare per il verso che si vorrebbe, quando è proprio la parte di sè interiore, se rispettata e saputa ascoltare, che può offrire il meglio, l'alimento alla propria realizzazione autentica, non confusa con la buona resa dentro i criteri prevalenti di riuscita e le guide comuni per ottenerla e per darne prova. Da tenere sotto controllo non è la propria interiorità perchè non disturbi e si uniformi, ma il proprio procedere e pensare, da vigilare e da verificare con attenzione, perchè non è affatto detto che sappia garantire la miglior realizzazione di se stessi. 

mercoledì 13 marzo 2024

L'ospite indesiderato

Tutto si vuole includere nella propria vita perchè le dia più opportunità di sviluppo, meno che ciò che vive dentro se stessi. Si vuole che questa parte di sè  fondamentalmente non disturbi, che intervenga come si gradisce che faccia, che si disciplini e si corregga se non fa da buon gregario per i propositi che si vogliono perseguire, che taccia e si levi di torno se gli crea ostacolo. Le si mettono sopra le spiegazioni e i commenti in apparenza più ragionevoli, in realtà i più strampalati, che come tali si rivelano quando si ha la bontà e l'intelligenza di ascoltarla, di intendere fedelmente ciò che dice. In modo rigido e ottuso, senza prestare ascolto, si riversano sul conto di ciò che si vive interiormente i luoghi comuni, si dà per scontata la logica comune. Tutto deve procedere in un'unica direzione. Se insorgono segni discordanti di malessere rispetto all'istanza che tutto si svolga senza ostacoli, interviene prontamente il fai da te dei tentativi di controllo, di ricerca del rimedio, sia nel verso di provare a allontanare e dissolvere ciò che interiormente risulta spiacevole, dell'evadere, del cercare qualche distrazione e investimento sostitutivo, sia del tenere sotto tutela e controllo fin che si può, l'esperienza intima da subito intesa come ostile e inopportuna, indesiderata, tutto per non compromettere la marcia abituale. Se non bastano questi espedienti ecco il ricorso alle cure, le solite e più convenzionali del metterci qualche farmaco per sedare o per tirar su, in ogni modo per manipolare ciò che si sente. C'è poi il ricorso alle psicoterapie, a partire da quelle, oggi più in voga e diffuse, che vantano pretese di scientificità, di impronta direttiva,  di tipo cognitivo comportamentale, che ribadiscono il ruolo egemone della parte conscia razionale chiamata a intervenire, sotto la guida del terapeuta, per prendere atto del carattere disfunzionale, a sè sfavorevole, di modalità di pensiero e di conseguenti vissuti e risposte emotive (tipo ansia, paure, insicurezza, sfiducia e bassa autostima ecc.), ritenute distorte e irrazionali, da correggere, sostituire e riplasmare con l'apprendimento di modi di pensiero più valido e razionale, a supporto di risposte emotive, giudicate sane e adeguate, funzionali a un procedere che, nelle coordinate di ciò che è solitamente concepito come valido e normale, voglia essere favorevole e soprattutto indisturbato. Le stesse psicoterapie che vorrebbero essere introspettive e, con varie denominazioni, analitiche non mettono spesso in forse il ruolo egemone della parte pensante razionale chiamata a indagare, spiegare, interpretare fino a scovare nell'intimo, nel profondo presunte cause ignote di un malessere che lì troverebbe la sua origine. Arrivano poi annunciate con colpi di festosa grancassa  le cure di ultimo grido, le nuove pensate, presentate come ultimissime scoperte e risultato dei progressi della scienza. Sono le nuove tecniche che promettono di liberare da intoppi, da conseguenze nefaste di traumi, da accidenti vari, casomai di incrementare il rendimento, ingegnose pensate che tutte partono dal presupposto, mai in discussione, che il meccanismo, che il presunto meccanismo della psiche, se in salute, debba girare a dovere, che, se c'è crisi e malessere interiore, da qualche parte si sia inceppato, che in qualcosa per qualche causa nefasta non renda come dovrebbe. Americanate del cavolo, spacciate per progressi e mirabolanti scoperte scientifiche, che hanno comunque il buon supporto e che trovano pronta credula accoglienza nell'idea comune che se c'è malessere significa che c'è guasto e necessità di rimedio, possibilmente facile e veloce, fatte salve dunque e fuori discussione tutte le condizioni del procedere, mai oggetto di riflessione, di attenta comprensione e verifica. L'intimo, ciò che si fa sentire, che interiormente accade, non ha significato se non per il contributo che dà o che non dà al procedere che si vuole far girare a senso unico e persistere. Non c'è alternativa. L'interiorità si spende per dare segnali di necessità di verifica. L'inconscio mette a disposizione l'intelligenza di cui dispone, che non venduta al senso comune e alla necessità di tenere su l'edificio di una realizzazione di se stessi tutta da verificare e capire nei suoi fondamenti, vuole spingere a guardare con attenzione nel proprio modo di procedere,  per non perdersi nell'illusorio, per non fallire i propri veri scopi, tutti casomai da riscoprire. Questa parte del proprio essere, che scuote, che nel sentire dà segnali tutt'altro che di malfunzionamento o di preoccupante dissesto, ma mirati a aprire spazi di ricerca, a avvicinare e portare lo sguardo su di sè e non come è abituale all'esterno, non ha ascolto rispettoso, nemmeno è riconosciuta nella natura del suo essere, che guarda caso è essere parte fondamentale del proprio essere e non un che di alieno, che non è compresa nel suo valore, nel suo potenziale, nella sua capacità. E' vista solo come un'appendice minore, una coda, che, come tale, dovrebbe solo scodinzolare a comando. Se non sta nei ranghi ecco il trattamento, perchè si rimetta in riga, perchè non rompa i piani e i propositi abituali. Nell'idea comune sotto il livello del ragionare e dell'esercizio del volere nell'individuo esiste solo un qualcosa che deve assecondare e che per pregiudizio è parte meno affidabile e evoluta da tenere a bada e da vigilare e nel caso da disciplinare e da rieducare. Diventa normale in risposta a esperienze e spinte interiori, particolarmente se non piacevoli e sgradite, opporre principi, valutazioni e giudizi, selezionare ciò che varrebbe e ciò che no, spiegare, interpretare, sostanzialmente non accogliere e non ascoltare, non intendere il contributo interiore, pregiudizialmente considerato solo come parte da tenere sotto controllo e da regolare. Si finisce, senza capire la gravità della sostanza e delle implicazioni di ciò che si sta facendo, per bistrattare ciò di cui si è portatori, per trattare da subalterna e da incapace la parte intima e profonda del proprio essere, la parte in realtà più vigile e dotata di intelligenza che sa vedere cosa si sta facendo di se stessi, che, mobilitando il sentire e con i sogni notturni, vuole contagiare e coinvolgere la parte del proprio essere in cui si è confinati per riportare il pensiero a essere da ottuso ripetitore di schemi e di attribuzioni di significati correnti a pensiero utile e fecondo, a pensiero riflessivo, aderente al vero dell'esperienza, capace di interrogare e riconoscere cosa si sta facendo e come si sta procedendo, se al seguito d'altro e in posizione docile e preoccupata solo di dare buona prova e di riscuotere gradimento e plauso o se viceversa capace di coltivare e di generare il proprio. La parte profonda reclama l'umano, che non è dare prova, ma trovare le proprie ragioni d'esistenza e le proprie risposte, i propri scopi da realizzare per intima persuasione e passione e non per avere in qualche modo successo o per cercare adattamento e quiete nel vedersi e nel dirsi normali. La parte profonda del proprio essere non è la presenza oscura da tenere a bada, non è l'ospite indesiderato cui porre limiti e condizioni, in alcuni casi da estromettere, è semmai il meglio di sè su cui imparare a fare conto e da cui tanto, tantissimo si può ricevere e imparare.